Verso un mondo nuovo di Mary Ann Glendon è il racconto avvincente di come, dalle macerie della Seconda guerra mondiale, un manipolo di autorevoli storici, filosofi, diplomatici, giuristi provenienti da culture lontane – cattolica, protestante, islamica, ebraica, confuciana, atea, induista – grazie alla guida intelligente, appassionata e tenace di Eleanor Roosevelt, riuscì a distillare i valori comuni fondanti di un pacifico consorzio umano, raccogliendoli in quel documento che può definirsi il primo Bill of Rights dell’intera umanità: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dall’ONU il 10 dicembre 1948.
«Che cosa permise di raggiungere accordi così delicati e decisivi, rapidamente, spesso in pochi mesi, tra persone che da un punto di vista culturale, ideologico e politico, avrebbero dovuto trovarsi in posizione avversaria? … L’Autrice prende per mano il lettore e lo conduce dietro il sipario, perché possa assistere a tutta la dinamica che diede luogo a un inatteso consenso …, porta il lettore a conoscere i protagonisti, gli attori, gli uomini e le donne che le vicende della storia fecero incontrare … Il libro è anzitutto una storia di persone vive.»
(Dall’Introduzione di Paolo G. Carozza, Marta Cartabia, Andrea Simoncini)
Da Rimini all’Onu, di Roberto Fontolan, «il Sussidiario.net», 19 maggio 2011
In un magnifico libro (Verso un mondo nuovo, ed. Liberilibri) Mary Ann Glendon ha raccontato la nascita della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, mirabile capolavoro di saggezza, solidità e condivisione. Il testo si deve al lavoro di un manipolo di uomini e donne tenuto insieme, attraverso tensioni e crisi, da un geniale intellettuale cristiano libanese, e forse solo un uomo forgiato dalla storia del Paese più fragile e meraviglioso dell’epoca moderna poteva riuscire nell’impresa. Era quello il tempo febbrile dei grandi sogni, della volontà di riscatto e di comunione dopo la catastrofe della Guerra che era dilagata per i quattro angoli della terra.
Le Nazioni Unite nascevano dal bisogno di costruire una casa comune su nuove fondamenta. Multilateralismo, egualitarismo, autodeterminazione, solidarietà. Da cui poi il principio di far prevalere il negoziato sullo scontro, l’inizio della fine del colonialismo, il proliferare di nuovi organismi e agenzie internazionali che avrebbero dovuto mediare, risolvere, sviluppare, pacificare, aiutare, costruire, includere. Dopo più di sessanta anni di quel momento storico rimangono i testi e le fotografie. Ma la grande costruzione non ha resistito al tempo e alla forza endogena del potere. Centinaia di organizzazioni, decine di migliaia di funzionari, enormi palazzi sparsi in ogni dove, montagne di soldi, tonnellate di documenti, innumerevoli eventi e riunioni e tavoli e congressi e assemblee, senza che si riesca a dare una risposta soddisfacente alla domanda: cosa stiamo facendo?
Nelle sedi della comunità internazionale si convive con un paradosso: non si sa il perché di tanto darsi da fare ma non se ne può fare a meno. È un mondo logorato dalla pressione degli interessi obliqui fatti prevalere a furia di “compensazioni” (cioè: il consenso si compra), un mondo annoiato dai riti autocelebrativi, un mondo che spera in un cambiamento ma si sente privo delle energie indispensabili per concretizzare qualcosa di nuovo. Ci vuole una riforma, si sente dire dappertutto, ma chi ha la forza per smuovere il corpaccione inerte del Palazzo di Vetro, il simbolo stesso di ciò che amiamo – un luogo di tutti e per tutti – e di ciò che non sopportiamo più – un luogo di menzogna e di artificio? Se ne sta lì a New York, a giganteggiare sulla banchina dell’East River, circondato da bandiere e transenne, scombussolato dai lavori di restauro che andranno avanti per anni. Costosi, ma facili. Gli altri restauri, altrettanto urgenti, sarebbero ben più economici, ma molto difficili.
Infatti rendersi conto del bisogno, e tutti sanno che all’Onu c’è “il” bisogno, non assicura che ci sia qualcuno che cerchi di risolverlo. Finché si rimane nell’analisi nulla si muove. La linfa nuova viene solo dai fatti. Fatti che accadono per la forza di un soggetto che si pone in virtù di se stesso (e non perché sia bravo a risolvere i problemi, o abbia una strategia efficace). È la storia di sessanta anni fa di quel gruppetto di persone, è la storia dei cantieri di Danzica, di piazza Tahrir al Cairo. E del Meeting di Rimini che oggi si presenta al Palazzo dell’Onu. Un piccolo fatto a fronte dell’immenso edificio e delle sue magagne – lo sappiamo, non ci manca il senso delle proporzioni. Chissà.
La fine di un mondo, di Roberto Fontolan, «il Sussidiario.net», 11 novembre 2009
Del vertice della Fao e dei suoi variopinti contorni di frivolezze resterà ben poco, a parte la cifra sconvolgente del miliardo di umani destinati a soccombere per la fame.
Facili le ironie su quante scuole, ospedali e appezzamenti agricoli si sarebbero potuti realizzare nelle regioni povere se i vari capi di stato fossero stati accompagnati da due sole auto e non da una media di venti come qualcuno ha pazientemente calcolato, se le delegazioni non si fossero poi precipitate a fare shopping da Bulgari e Prada, e se l’amico ritrovato (dall’Italia) Gheddafi avesse reclutato non duecento ma venti hostess (“vestite sobriamente, molte anche laureate” ha voluto precisare la titolare dell’agenzia nonché mamma di una delle fortunate) per colorare le sue serate romane… ma questi sono i vertici e queste sono le organizzazioni mondiali del nostro tempo, recriminare non serve a nulla e non dà soddisfazione ai bisognosi.
Piuttosto serve domandarci cosa manca a questo forsennato e perenne incontrarsi di leader in ogni parte del globo: non le ragioni, perché tutti vediamo la necessità di fare la pace, nominare i capi della sempre stanca “nuova Europa”, sconfiggere la fame, tutelare i ghiacciai. Ma evidentemente le ragioni non bastano a rendere efficace, produttivo e credibile il rito più replicato della moderna politica mondiale: il summit. E allora?
Una risposta viene dal libro di storia contemporanea più sorprendente degli ultimi anni – di una storia che mescola diplomazia, diritto, politica e persino filosofia in un racconto affascinante e serrato: il triennio che portò alla Dichiarazione universale dei Diritti umani, solennemente avvenuta il 10 dicembre 1948. Lo ha scritto Mary Ann Glendon, docente a Harvard e presidente dell’Accademia pontificia delle Scienze sociali, e con il titolo “Verso un mondo nuovo” lo ha pubblicato in Italia l’editore Liberilibri.
Ebbene quel triennio è una scoperta, come sono una scoperta i suoi protagonisti, “un gruppo di uomini e donne straordinari che affrontarono la sfida in un momento storico senza eguali”. La Dichiarazione, vero vertice della saggezza umana, si trova esattamente al punto di incrocio tra spirito del tempo e le personalità di quel gruppo (soprattutto un cinese, un libanese, un francese e una americana), animate da passione, temperamento, cultura e desiderio di bene – tutte qualità che oggi appaiono come virtù eroiche, tanto sembrano scarse nel mercato politico mondiale.
È prodigioso il modo con cui l’autrice guida dolcemente ed energicamente il lettore nel mondo distrutto della fine della guerra e proprio perché distrutto bisognoso di una rigenerazione profondissima e radicale. Gli uomini si riscuotevano dall’orrore e risalivano le scogliere dell’abisso in cui erano precipitati.
Dovevano trovare insieme nuove ragioni per incontrarsi e convivere e costruire, ed ecco il motivo di tanta tensione creatrice, di tanta instancabilità, di tanto impegno. Così sfogliando le pagine di questa magnifica epopea (in cui brilla la stella di Eleanor Roosevelt) viene da leggere in una mesta controluce il vano viaggiare contemporaneo da una città all’altra, da un vertice al successivo. E chi vorrà seguire il consiglio di aprire il volume stia certo: la risposta a quella domanda arriva presto ed è molto chiara.