A Disquisition on Government (1850) è un gioiello della scienza politica e il prodotto più sofisticato scaturito dall’esperienza della repubblica americana dopo i suoi primi sessant’anni di vita. In questo saggio, nel quale gli insegnamenti del modello americano vengono analizzati a beneficio del mondo intero, John C. Calhoun individua negli effetti del principio maggioritario semplice una vera piaga, destinata a minare ogni società democratica.
E indica anche una soluzione: il principio della maggioranza concorrente, secondo il quale la ricerca del consenso sulle questioni cruciali deve tener conto dei grandi interessi del Paese. L’autore avanza anche una teoria liberale della lotta di classe: la fonte dei privilegi ingiustificati va ricercata nei meccanismi del potere politico e non nel modo di produzione della ricchezza. I veri padroni sono coloro che dominano non i mezzi di produzione ma l’apparato governativo. Oggi, la critica calhouniana al concetto di maggioranza semplice e la sua contrapposizione fra produttori e consumatori di tasse sono sorprendentemente attuali. I problemi derivanti dall’applicazione del principio della “sovranità popolare” e il fenomeno del parassitismo politico – che assillano tutte le società democratiche – erano già ben visibili nell’età jacksoniana, agli albori delle istituzioni democratiche.
L’insofferenza verso lo Stato che tassa e spende troppo, di Piero Ostellino, «Corriere della Sera», 10 febbraio 2012, pagg. 1, s.
Ovunque, nel mondo industrializzato avanzato – anche negli Stati Uniti dove, secondo la nostra retorica fiscale, tutti pagano volentieri le tasse – monta l’insofferenza per lo Stato spendaccione e tassatore. Negli Usa, poi, i contribuenti ne recuperano il fondamento etico-politico nella storia e nelle istituzioni stesse del Paese; che hanno fatto una sorta di «inversione a U», dalle origini ai giorni d’oggi, per tornare al punto di prima.
Il punto critico sta nella contrapposizione fra la Costituzione federale e i singoli Stati, espressione delle antiche colonie inglesi dalla cui rivoluzione (antifiscale) è nata la federazione e che, nell’Ottocento, giunsero (anche per ragioni fiscali) a provocare la guerra civile e minacciare la secessione.
II primo a rilevare tale antinomia fu John C. Calhoun con la sua Disquisition on Government (1850), oggi pubblicata da Liberilibri (Disquisizioni sul governo, pagg. 103, €16) con una bella introduzione di Luigi Marco Bassani. Calhoun era un uomo del Sud del quale difendeva persino la pratica della schiavitù per tutelarne gli interessi agricoli rispetto a quelli industriali del Nord.
«Il dibattito – scrive Bassani – era ormai su Stato e federazione: fra una posizione rigorosamente organicista, che considerava la Costituzione opera dell’intero popolo americano, e una coerentemente pattizia, che la riteneva frutto dell’accordo fra i popoli dei vari Stati». Calhoun sosteneva che non vi era alcun legame diretto fra i cittadini e il governo federale. L’Unione era di Stati sovrani. Inoltre, non esisteva una cittadinanza americana generale, ma si era cittadini di un singolo Stato e si obbediva al diritto vigente in esso, comprese le norme federali… Insomma, gli Stati avevano dato vita al nuovo Ordinamento «come patto tra loro e non come Costituzione su di loro».
Alle radici della battaglia contro l’eccesso di fiscalità federale c’è ancora oggi il diritto di resistenza a ogni tassazione illegittima sulla base del principio di «autoconservazione» degli individui incarnato negli Stati di appartenenza. Naturalmente, nessuno mette più in discussione la federazione; la Costituzione sarà pure, storicamente, un patto ma, dal momento che ogni Stato le ha delegato una parte della sua sovranità, essa ha assunto una natura politica che ne perpetua l’unitarietà politica. Per dirla con le parole di Calhoun, «solo il potere può opporsi al potere e tendenza dopo tendenza. Quelli che esercitano potere e quelli soggetti al suo esercizio – i governanti e i governati – sono in antagonistica relazione gli uni con gli altri»; parole che ritorneranno nello Spirito delle leggi di Montesquieu. L’americano del Sud, a differenza dell’aristocratico francese, non pensava all’equilibrio fra poteri istituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario), bensì fra gli interessi degli Stati federati, in costante dialettica fra loro e con il potere centrale.
I congressisti sono eletti a livello locale e ne rappresentano gli interessi al Congresso. Gli interessi si de-ideologizzano localmente e si istituzionalizzano centralmente. Il sistema giudiziario di common law – che si affida alla tradizione dei casi precedenti, rispetto all’ondivaga legislazione parlamentare, foriera di arbitrio politico da parte delle mutevoli maggioranze, e di «incertezza del diritto» – viene, a sua volta, in soccorso delle libertà e dei diritti soggettivi del cittadino (anche) contro il potere costituito.
Se ne era fatto interprete, da noi, un grande liberale, Bruno Leoni, in Freedom and the Law, 1961 (La libertà e la legge, Liberïlibri, 1994; pagg. 220, €28). «La crisi dei sistemi democratico-liberali – scrive Raimondo Cubeddu nell’introduzione non può essere semplicisticamente risolta sottoponendoli ad opportune cure di “ingegneria costituzionale”. Ma la parte più attuale della sua (di Leoni, n.d.r.) riflessione concerne il molo stesso della politica se è bene che i politici non facciano le leggi e che non dirigano l’economia». Non era un tentativo di re-instaurare il liberalismo del laissez faire, ma la constatazione che «tra tale liberalismo ed il nuovo c’è di mezzo la rivoluzione marginalista, quella “teoria dei valori soggettivi” che, superando i paradossi della “teoria del valore-lavoro”, e determinando uno spostamento d’attenzione dal produttore al consumatore, apre nuove prospettive al liberalismo ponendo, parimenti, il problema delle distinzione dalla tradizione democratica».
Nel solco del pragmatismo anglosassone, ma anche orientale, il liberale italiano ricordava la replica di un vecchio pedagogo confuciano al suo discepolo un giovanissimo imperatore cinese cui aveva chiesto il nome di alcuni animali incontrati durante una passeggiata in campagna – che aveva risposto «pecore». Rispettosamente, il pedagogo aveva detto: «Il figlio del cielo ha perfettamente ragione. Devo solo aggiungere che pecore di questo tipo vengono comunemente chiamati maiali». Forse, il nostro futuro di uomini liberi dipenderà (anche) dalla definizione che la Politica darà della funzione della fiscalità.
Così i burocrati d’oro sono diventati i nostri veri padroni, di Luca Negri, «il Giornale», 28 febbraio 2012, pag. 28
C’è chi lo considera una specie di Marx americano. Una battuta con un fondo di verità, dato che John Caldwell Calhoun aveva in comune con il barbuto di Treviri la visione della storia come lotta di divergenti interessi economici.
Però Calhoun era un «Marx rovesciato», non tanto perché partigiano dei proprietari e non dei salariati, ma perché individuava la fonte dei privilegi (e dei disequilibri) sociali nel potere politico e nell’apparato governativo invece che nel modo di produzione economico. A parte gli apprezzamenti di Carl Schmitt, in Europa il suo lavoro è meno conosciuto rispetto a quello di Tocqueville, altro nome fondamentale per comprendere i primi passi e le prime controversie della giovane democrazia nordamericana. Negli Usa il suo nome è noto tanto per le opere saggistiche quanto per la politica attiva che lo vide protagonista negli anni che precedettero la Guerra Civile. Calhuon era nato in South Carolina nel 1782, in una famiglia di origine scozzese dalla quale aveva ereditato una certa diffidenza per ciò che sapeva troppo di inglese, dunque di dispotico. Membro della Camera dei Rappresentanti, tentò più volte la corsa per la carica di Presidente senza mai vincere le elezioni. Fu però vice di John Quincy Adams e poi di Andrew Jackson, anche se riuscì a litigare con entrambi e con i rispettivi partiti, conservatore e democratico. Più che altro agì da indipendente, sostenuto dal suo Stato che ne ripagava l’impegno per garantire l’autonomia politica all’interno dell’Unione. La sua opera più importante, Disquisizione sul governo, è finalmente disponibile per il lettore italiano (Liberilibri edizioni, 169 pag. euro 16, traduzione e lunga introduzione di Luigi Marco Bassani, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Milano). Opera di sorprendente attualità, nonostante abbia quasi duecento anni, per la strenua difesa del principio federalista, dell’autonomia del singolo Stato contro ogni accentramento, per l’analisi della Costituzione come libero patto e non legge superiore che tutto sottomette. Calhoun teorizzò proprio la «nullification», l’annullamento di una legge del governo centrale nel caso danneggiasse gli interessi di uno degli Stati dell’Unione. Il diritto prepolitico alla secessione, alla stessa rivoluzione contro un governo ingiusto, era già nel codice genetico degli Stati Uniti, idea cardine dei Padri Fondatori. La vera novità di Calhoun fu la teoria della «maggioranza concorrente» da opporre alla semplice maggioranza numerica. Il governo è indispensabile per salvaguardare la società e frenare il disordine, ma tende sempre a diventare dispotico, anche, anzi soprattutto, in un sistema democratico. La maggioranza concorrente, la «negoziazione permanente» fra gli attori sociali, il diritto di veto dei diversi gruppi di interesse dovrebbe impedire che un potere, legittimato dalla mera quantità di consenso, si ingrandisca troppo a scapito degli altri. L’attualità di Calhoun risulta ancora più evidente nelle riflessioni sul problema fiscale. L’apparato dello Stato centrale richiede infatti un ingente trasferimento di denaro da parte dei singoli Stati e di tutti i cittadini, non solo per le infrastrutture utili al paese intero, ma per mantenere i burocrati e i politici di professione. Si vengono così a creare due gruppi, due classi contrapposte: i consumatori di tasse (i funzionari) e i produttori di tasse (i cittadini). Quanto viene prelevato al singolo non viene mai completamente restituito in servizi, una sua parte serve per pagare «agenti ed impiegati del governo». Dunque, «le tasse rappresentano un dono per la parte della comunità che riceve di più sotto forma di trasferimenti di quanto non paghi sotto forma di tasse, mentre per l’altra parte, che paga sotto forma di tasse più di quanto riceva sotto forma di spesa pubblica, le tasse sono vere e proprie imposte, gravami, e non doni». Gli impieghi sono creati per mezzo della spesa pubblica, mentre una classe di tecnici intasca maxistipendi per risolvere problemi talvolta creati e spesso aggravati dalla sua stessa esistenza. Inevitabili risulteranno le tensioni sociali, anche perché «più la linea del governo tenderà ad aumentare tasse e spesa pubblica, più sarà appoggiata dagli uni e avversata dagli altri». Calhoun morì nel 1850, ma fece in tempo a profetizzare la «fine dell’Unione», la guerra fra il Sud rurale oppresso dalla pressione fiscale e il Nord industrializzato che raccoglieva i vantaggi di quella tassazione. Meglio leggere e meditare, prima che sia troppo tardi.