Funzionarismo

Un’analisi della burocrazia e delle sue implicazioni storico-politiche

Pagine 156

ISBN 978-88-98094-10-3

Prima edizione 2013

Il prezzo originale era: 15,00 €.Il prezzo attuale è: 14,25 €.

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«Questo scritto nasce da una curiosità: da tanti anni ero abituato a considerare “funzionarismo” un termine poco usato, ma co­munque degno di far parte di un dizionario della lingua italiana … Tempo addietro mi accorsi che il termine non risulta né nei di­zionari che tengo in casa, né in quelli consul­tabili sulla rete, ivi compresa la più nota en­ciclopedia nazionale … mi sono chiesto per quale ragione la parola, usata da noti personaggi, era stata “bandita” dai dizionari e dalle enciclopedie.»

Da Salandra a Gramsci, da Sturzo a For­tu­nato, per non parlare dei “costruttori” e pensatori dello Stato borghese, le critiche alla burocrazia e alla sua “ideologia” non hanno carattere me­ra­mente economico, ma, in primo luogo, politico e giuridico: l’organizzazione burocratica fa parte dello Stato moderno ma è percepita in contrad­dizione con i principî dello Stato democratico-liberale.

Oggi tale consapevolezza pare dimenticata; e spesso si propongono soluzioni e idee che esal­tano – e talvolta santificano – il ruolo della bu­ro­crazia. Ma dietro certe potenti “derivazioni” c’è la realtà di un potere burocratico il quale continua a cre­­scere e resistere a cambiamenti radicali.

Perché siamo tutti sudditi della burocrazia assoluta di Luca Negri, «il Giornale», 3 gennaio 2014, pag. 22

La vera casta onnipotente non è quella dei politici, ma quella dei funzionari. Che resistono a ogni stagione politica. Fin dai tempi della rivoluzione francese. Sarebbe ora di fare una vera rivoluzione, di dar retta ai veri rivoluzionari. Ad esempio Robespierre, che nel progetto di dichiarazione dei diritti proposto alla Convenzione scrisse: «In ogni Stato la legge deve soprattutto difendere la libertà pubblica e individuale contro l’abuso dell’autorità di coloro che governano.

Ogni istituzione che non consideri il popolo come buono e il magistrato come corruttibile è difettosa». Gli fece eco Saint-Just: «Il ministero è un mondo di carta… gli uffici hanno preso il posto della monarchia». Rincarò la dose Karl Marx: «La burocrazia è, secondo la sua essenza, lo Stato come formalismo, essa lo è anche secondo il suo scopo».

Insomma, una vera rivoluzione andava fatta, e va ancor più urgentemente fatta oggi, contro la burocrazia governativa che, come intuirono gli affossatori del regime feudale, tende a prendere il posto del sovrano assoluto. Esiste un nome ben preciso, stranamente trascurato dai vocabolari ma non da acuti pensatori politici, per definire questa invadenza dei poteri pubblici: funzionarismo. Ed è il nome che Teodoro Klitsche de la Grange (fra gli storici fondatori del trimestrale di cultura politica Behemoth) ha scelto per il suo pamphlet in uscita per Liberilibri. Dunque la rivoluzione andrebbe fatta contro questo potere burocratico che fu il peccato originale delle democrazie borghesi e poi nerbo dei totalitarismi novecenteschi, riuscendo però a sopravvivere alla loro caduta, soprattutto in Italia, patria d’elezione del «mondo visto dalla scrivania».

Il termine «funzionarismo» nei primi decenni del secolo scorso, ci ricorda Klitsche de la Grange, comparve nelle opere di un giurista come Antonio Salandra, di un economista come Giustino Fortunato e di un altro rivoluzionario come Antonio Gramsci. Per Salandra «funzionarismo denotava la situazione dell’ordinamento dello Stato moderno per cui s’incrementava la funzione amministrativa e, correlativamente, il personale addetto; ciò era provato dai dati quantitativi costituiti dall’aumento delle spese» (ovvero del carico fiscale sulle spalle del cittadino). Per Fortunato si trattava di «proliferazione d’impieghi pubblici di dubbia (o inesistente) utilità». Gramsci coglieva acutamente la contraddizione insita nello Stato liberale che prometteva autonomia alla società civile ma la soffocava con «l’espansione dei poteri burocratici». Punto centrale, questo: gli interessi di coloro che vivono non per la politica ma di politica non sempre combaciano con l’interesse generale del Paese, con la vita reale dei cittadini. La vera casta non sarebbe tanto quella dei politici eletti democraticamente, ovvero sottoposti, più o meno, al controllo della pubblica opinione, responsabili delle loro scelte di fronte all’elettorato ed eventualmente non rieleggibili ma pensionabili. Sono gli oscuri funzionari pubblici, la fauna ministeriale, gli inamovibili impiegati statali, protetti e garantiti dalle leggi e da stipendi sicuri, i veri potenti.

I governi vanno e vengono, loro rimangono e fanno funzionare la macchina statale, macchina che «adopera tutta l’energia consumata per far muovere i propri ingranaggi e cioè a rendimento zero. Quanto più si avvicina al rendimento suddetto, tanto più è apprezzato dai burocrati (ovviamente il contrario è per gli utenti)». Insomma, l’efficienza auspicata dell’amministrazione «è quella della macchina che non rende nulla» eccetto la propria conservazione e il proprio reddito. I funzionari rappresentano la vera élite che si autonomizza rispetto al corpo sociale, in loro troviamo, per citare Gaetano Mosca, la «naturale tendenza che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri». Tendenza rafforzata dal sapere specializzato (quello, per intenderci, dei tecnici invocati per ovviare all’incapacità dei politici), dai salti di carriera automatici, dalla selezione per cooptazione, dal «normativismo» («ideologia giuridica dei ceti dei funzionari e degli operatori giuridici, la negazione che il rapporto giuridico sia rapporto tra uomini, ma piuttosto tra uomo e norma»).

Allora la vera rivoluzione va fatta contro il funzionarismo, e va fatta riducendo lo Stato al minimo, decentrando il più possibile (come consigliava Gianfranco Miglio, non a caso citato abbondantemente da Klitsche de la Grange), puntando sull’organizzazione comunitaria e non sulla statalizzazione. In sintesi, il pensiero autonomista e libertario può riuscire dove fallirono i rivoluzionari dei secoli passati.

 

La burocrazia sta diventando una vera metastasi che tende ad occupare tutti gli spazi (anche decisionali) disponibili di Gianfranco Morra, «Italia Oggi», 15 gennaio 2014, pag. 16

Alcune coraggiose inchieste giornalistiche, riunite in best-seller di successo, hanno disvelato e svergognato la «casta» più potente e disinvolta, quella dei politici. Ma ve ne sono altre. Come quella dei burocrati, triste e tetra malattia, insieme inevitabile e inguaribile, degli Stati evoluti e complessi. Ce la descrive una breve monografia, Funzionarismo (Liberilibri, Macerata, pp. 152, euro 15) di Teodoro Klitsche de la Grange. L’ipertrofia burocratica c’è stata anche nel passato: si pensi agli imperi cinese o romano dopo Diocleziano. Ma solo con la modernità, aiutata dalla tecnologia, ha occupato tutti gli stati occidentali. Weber ha definito, dopo quelle carismatica e tradizionale, una terza forma di autorità, legale-razionale, o anche burocratica. In essa prevale il potere dell’ufficio (bureau), esercitato al servizio dei politici da una categoria di tecnici, scelti impersonalmente, privilegiati e inamovibili: i burocrati, appunto. Su cui ironizzeranno Flaubert (L’educazione sentimentale) e Gogol (L’ispettore generale).

I politici, dietro l’insegnamento di Michels, capiranno presto che il funzionarismo è un vero pericolo per la democrazia. Esso, infatti, si estende al partito politico e lo trasforma in una macchina priva di ideali: «lo spirito creatore viene isterilito, il partito diviene un organismo burocratico senza animo e senza volontà» (Gramsci); «il funzionarismo ha soppresso il libero cittadino, il politicantismo lo ha soppiantato e il sindacalismo eliminato» (Sturzo).

Sempre meno numerosi, oggi, il settore lavorativo primario (agricoltura) e quello secondario (industria), che entrambi producono ricchezza. Sempre più affollato e costoso e anche parassitario quello terziario, composto soprattutto dalla burocrazia privata e pubblica, che consuma ricchezza. Un aumento vertiginoso degli addetti, con una parallela diminuzione della efficienza, secondo il «principio di Peter» (1969): «ogni dipendente sale di grado sino al proprio livello di incompetenza».

Sarebbe ingenuo pensare di farne a meno. Ma sarebbe da irresponsabili non capirne i pericoli e non frenarli. I nostri Costituenti lo hanno tentato con almeno due importanti articoli (ben poco applicati): il 28 sulla responsabilità dei dipendenti statali (non solo rispetto allo Stato, ma anche ai cittadini) e il 97 su competenza e concorsi. Manca la cosa più importante: l’incompatibilità. E ciò ha portato, con un crescendo continuo, al passaggio e alla utilizzazione di burocrati fuori del loro campo. La burocrazia è il braccio destro della politica, di cui deve eseguire le decisioni. I funzionari, invece, usano l’amministrazione (anche quella giudiziaria, dove sono troppo irresponsabili e mobili nei ruoli) come trampolino di lancio nella politica, nella quale porteranno inevitabilmente una mentalità, anche quando onesta e intelligente, di altro genere. La burocrazia li ha resi «strabici».

Weber ha parlato di «specialisti senza intelligenza, gaudenti senza cuore». Non tutti, certo; ma neppure pochi. Con questi passaggi (dai tribunali, dalle banche, dagli organismi nazionali e internazionali, dagli enti statali alla politica) viene violata la divisione dei poteri, perché, come affermava Montesquieu, essi sono separati solo quando viene impedito il passaggio dall’uno all’altro. E ciò accade anche con i sempre più frequenti governi tecnici o anche con i tecnici (nessuno dei quali eletto dai cittadini) al governo. Il funzionarismo getta le sue teste «migliori» nella politica, che, in tal modo viene condizionata e decisa con metodi tecnologici, il più delle volte controproducenti. Dato che la politica deve servirsi della tecnica, ma si estingue se si limita alla tecnica. La burocrazia è sempre «spirito rappreso e macchina inanimata» (Weber): la sua azione traduce un pensiero strumentale rivolto allo scopo (Zweckrational).

Essa non può sostituire la politica, la cui azione è mossa dalla tradizione, dal carisma, dalla razionalità essenziale dei valori (Wertrational). È il paradosso della democrazia. Sempre più dovrà servirsi del funzionarismo, ma deve anche difendersene, in quanto è incompatibile con la sua essenza: «Perché il dominio della burocrazia tende al totalitarismo e anticipa quello della dittatura» (Sturzo).

 

LUNEDÌ IL POTERE DEL BUREAU di Antonio Gnoli, «la Repubblica», 3 febbraio 2014, pag. 33

Chi comanda oggi in Italia? Difficile una risposta convincente. Non la politica. E neppure l’economia, in fuga verso un altrove che sa di globalizzazione. E allora? C’è un soggetto che indossa l’impermeabile, ha il bavero alzato e porta gli occhiali scuri. Nessuno lo noterebbe. Se non finisse ogni tanto, per puro caso, sui giornali. È il potere burocratico. Fatto di fili invisibili che muovono lo Stato e i suoi regolamenti. L’Io boiardico è un soggetto impolitico. Apparentemente dimesso, ubbidiente, navigato, esercita il vero potere nascondendolo. Per vanità, o rozza convenienza, può moltiplicare le proprie cariche e accumulare prebende. Ma non ha passioni né valori condivisi. Vive di tecniche e di algoritmi. Il suo dominio è inversamente proporzionale a quello esercitato dalla politica. Cresce nei momenti di decadenza. La potenza di ogni funzionario, dice Weber, si fonda sul sapere, sulla conoscenza dei fatti concreti. È scienza. Spesso arcana, come intuì Kafka. Un curioso libretto, Funzionarismo, di Teodoro Klitsche de la Grange (ed. liberilibri) ne ripercorre la storia e l’organizzazione. Accade, nei periodi di crisi, che la politica perda l’anima, e che lo “spirito rappreso” della burocrazia abbia il sopravvento. Rappresentazione finale di un paese immobile.

 

Una riforma al mese? Solo se “l’ipertrofia dell’ego” dei burocrati permette di Marco Valerio Lo Prete, «Il Foglio», 18 febbraio 2014, pag. 2

“Una riforma al mese”, da ieri, è la frase sulla quale si misurerà il successo o l’insuccesso di Matteo Renzi, il presidente del Consiglio (incaricato) più giovane della storia italiana. Il metodo annunciato, a volerlo giudicare con il metro di alcuni autorevoli economisti contemporanei (non sospettabili di corrività con il sindaco rampante), è corretto. In fondo “move fast and break things” è anche il motto che i dipendenti di Facebook leggono ogni mattina all’ingresso dei loro uffici nella Silicon Valley. E non è soltanto retorica o training autogeno.

Daron Acemoglu, professore al Mit di Boston e già autore del bestseller “Perché le nazioni falliscono”, ha appena pubblicato infatti un paper intitolato “Young, restless and creative”, “Giovani, instancabili e creativi”. Qui il legame tra età (poca) e capacità di innovare (tanta) è perfino quantificato. Vale statisticamente per il mondo dell’impresa privata, visto che le società che promuovono manager più giovani sfornano in media un numero maggiore di innovazioni radicali (misurate con brevetti e citazioni su riviste scientifiche), e vale più in generale per le società in cui viviamo, fa intendere Acemoglu, questa volta però senza numeri alla mano. L’ipotesi di studio viene direttamente dagli scritti di Joseph Schumpeter (1883-1950): il meccanismo della “distruzione creatrice” si mette in moto quando gli incentivi economici e istituzionali premiano idee trasformative della realtà, ma dipende pure da apertura e disponibilità psicologica degli innovatori a deviare dal sentiero finora battuto, sia esso tecnologico o istituzionale. “Libertà mentale” e “ribellione”, non a caso, sono fattori presi seriamente in considerazione da Schumpeter nella sua “Teoria dello sviluppo economico”.

Fuori dai libri di testo, però, e specificatamente in Italia, Renzi dovrà fare i conti con quanto ha scritto di recente Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: “Nulla può essere senza il placet della burocrazia e delle magistrature, amministrative o ordinarie che siano. E poiché quelle sono tutte strutture adibite alla conservazione dell’esistente, i loro vertici non daranno mai alla politica il permesso di introdurre i cambiamenti invocati dal resto del paese”. Per l’ex ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, quella del paese ostaggio della burocrazia è “una sacrosanta balla”, tuttavia non sono mancati i ministri dello stesso governo Letta che – dietro le quinte – lamentavano di essere costretti a perorare le ragioni dei loro provvedimenti con i singoli membri della Ragioneria dello stato, come se nemmeno il neo ragioniere in chief Daniele Franco potesse fare più di tanto. D’altronde il vizio di negare il problema burocratico cancellandolo nominalisticamente non è nuovo, sostiene il giurista Teodoro Klitsche de la Grange nel pamphlet “Funzionarismo”, pubblicato da Liberilibri.

“Funzionarismo” sta a indicare “una burocrazia che non si riconosce più come potere servente, ma in grado di soppiantare quello sovrano. E’ un’‘ipertrofia dell’ego burocratico’, la macchina che si considera pilota, l’esecutore che si pensa guida”. Di “funzionarismo”, all’inizio del ’900, hanno parlato italiani illustri: il giurista Antonio Salandra (riferendosi allo stato moderno che incrementava quasi per inerzia funzione amministrativa e personale addetto), l’economista Giustino Fortunato (identificando una “piccola borghesia dominante” attirata dall’idea di sostituire “vaste imprese pubbliche, autoritarie e gerarchiche, alla libera concorrenza dei cittadini”), e il pensatore politico Antonio Gramsci (incuriosito dallo stato liberale che esalta l’autonomia della società civile ma poi lascia espandere i poteri burocratici, e preoccupato dal funzionarismo di quadri sindacali e partitici che sopiscono lo spirito rivoluzionario). Poi, però, il termine è lentamente scomparso dai radar. Ingiustificatamente, sottolinea De la Grange, facendo l’esempio dell’articolo 28 della Costituzione che fu concepito per difendere il cittadino dal potere amministrativo e burocratico, poi però applicato di rado dalle magistrature superiori, pur in presenza di apparati pubblici mediamente poco efficienti e non sempre corretti. C’è anche il caso delle garanzie istituzionali, concepite per esempio per difendere indipendenza e terzietà della magistratura, poi invece ingiustamente promosse a rango di diritti soggettivi fondamentali e spesso trasformate in “deroghe da obblighi, doveri e soggezioni”. Con lo “spirito rappreso” delle nostre società (Weber), con quella “macchina per la macchina” (Fortunato) a cui non piace sentir parlare di sé, si confronterà il tentativo creativo e perciò distruttivo del giovane Renzi.

 

DECISIONE O AMMINISTRAZIONE, il problema politico del nostro tempo di Giovanni Sessa, «Il Borghese», luglio 2014, pagg. 71-72

L’ULTIMO libro del giurista Teodoro Klitsche de la Grange è un’opera che ci pone al centro di una delle problematiche politologiche più significative del nostro tempo e apre ampi spazi di di­ discussione teorica suggerendo, tra le righe, sue possibili soluzioni. Si tratta del volume Funzionarismo, nelle librerie per i tipi di Liberilibri (per ordini: ama@liberilibri.it 0733/23 I989, euro 15,00). Questo lavoro, che porta a conclusione le riflessioni filosofico- giuridiche dell’autore, è stato occasionato da una constatazione erudita: la scomparsa dal vocabolario e dal lessico tecnico-politico contemporaneo, del termine «funzionalismo». De la Gran­ge si è interrogato, nelle pagine del vo­lume, sulle ragioni della caduta in disu­so dell’espressione in questione. In politica il linguaggio svolge un ruolo fondamentale per giustificare l’esercizio del potere. Non è casuale che il termine «funzionalismo», al­meno fino al termine del secolo XIX e l’inizio del XX, abbia avuto una circolazione assai ampia negli scritti politologici.

L’ attualità ineludibile di questo libro, sta nell’aver colto che la rimo­zione del termine è un tentativo di elusione, di depistaggio. Infatti, oggi che la burocrazia amministrativa esercita un ruolo eccedente, rispetto a quello che le è stato assegnato dalla teoria politica, in pochi hanno discus­so in modo diretto i problemi e le prospettive che ciò comporta. Proba­bilmente, tale situazione è chiarita da quello che, a nostro avviso, è lo sno­do centrale del volume. In esso, l’au­tore sposa l’esegesi dello Stato mo­derno di Del Noce. Il filosofo cattoli­co aveva compreso come, nel nostro tempo, l’eclissi dell’autorità non coincida, affatto, con l’avvento di una liberazione politica, in quanto: «...fin dalla sua nascita lo Stato moderno ha progressivamente perso d’autorità»  (p. 57)  ma, di converso, ha visto dilatarsi il proprio potere. Ciò è accaduto in forza del processo di surrogazione dell’autorità politica statuale, da parte degli apparati amministrativi.

Già Salandra aveva sottolineato che il sorgere dello Stato moderno implica il dilatarsi delle funzioni burocratiche. La sua  intuizione storica fu ampliata da Fortunato. Questi rilevò il tratto parassitario della burocrazia, fondato su un’idea della prassi amministrativa quale «macchina» atta a perpetuare l’interesse dei conducenti. De la Grange ricorda al lettore come Gramsci   ritenesse il fun­zionarismo, l’antitesi dello spirito rivoluzionario e come il pensiero au­tenticamente liberale abbia in sè una forte connotazione antiburocratica. Weber definì l’organizzazione burocratica «spirito rappreso», creatore di una struttura  inanimata, pensata con il carattere dell’indistruttibilità. Non diversamente, Marx contrastò le posizioni hegeliane in merito al ruolo della burocrazia, sostenendo che essa si pretende fine ultimo dello Stato, riducendo così la dimensione politica a puro formalismo.

In questa carrellata di opinioni non poteva mancare il riferimento agli studiosi della Scuola di Public Choice. In tale prospettiva di analisi, il burocrate, come il politico: «…misura la propria capacità di incidenza e la propria rilevanza sociale  attraverso il potere che esercita» (p. 27).  Esso è presente se­condo opposte modalità nello Stato assoluto e in quello rappresentativo. Nel primo, la burocrazia era soggetta a un potere che racchiudeva in sè il momento legislativo e quello esecutivo, nel secondo ha due controllori, la legge e il potere governativo. Mentre l’unicità del potere favorisce l’unità e la coerenza interna dell’organizzazione amministrativa, la divisione del potere induce la poliarchia, la dispersione della volontà generale, della decisione. Stando alla lezione di Hauriou, il regime parlamentare ha sostituito l’aristocrazia di nascita con un’aristocrazia di istituzione, con un nuovo potere oligarchico centrato su un sapere specialistico. Il potere burocratico è stato, nel suo svi­luppo temporale, rafforzato dal fattore durata. Infatti, le cariche politiche sono depotenziate dal loro essere tempora­nee. Allo scopo, de la Grange ci ricorda che i ministri passano, mentre i direttori generali restano al loro posto.

Sotto il profilo storico-teorico: «...il positivismo giuridico classico è l ‘ideologia del potere monarchico imborghesito del XIX secolo, il nor­mativismo può essere considerato l’ideologia giuridica dei ceti dei fun­zionaridell’epoca della liberalde­mocrazia maturaestenuata e deca­dente» (p.85). L’affermazione ci pare corrispondere a verità, in quanto la riduzione del   rapporto giuridico a quello tra uomo e norma è il percorso principe che induce la negazione del­la sovranità: «Senza un sovrano con­creto e personale l’aiutantato (l’espressione è di Miglio) gode di un potere superiore, dato dall’interpre­tazione e   applicazione della legge impersonale» (p. 87). Per tale ragio­ne, il normativismo è l’ideologia della rivincita dei poteri serventi (burocrazia, amministrazione), nei confronti del potere sovrano che, nelle democrazie parlamentari è esercitato dal popolo. Problema quanto mai sentito, in particolare in Italia, dove la lettura eticizzante della Costituzione esige, tra le altre cose, la difesa a senso unico dell’indipendenza della magistratura, limitando le responsabilità dello Stato, e dei suoi funzionari, nei confronti di eventuali danneggiati.

Quindi, mentre il «funzionarismo» subiva la damnatio memoriae, nel secondo dopoguerra la sua marcia trionfale è proseguita ininterrotta. II funzio­narismo è una patologia del burocrati­smo, è: «una burocrazia che non si riconosce più come potere servente, ma (si pone) in grado di soppiantare quel­lo sovrano» (p. 117). Essa è incapace di sintesi politica, semmai, come colse Weber, il suo dilatarsi è il segno di un cambiamento profondo, quello che ha gradualmente trasformato  lo Stato di diritto nell’esercizio di un potere mera­mente razionale, «amministrativo»: nel senso colto da Saint-Simon, quando parlo della «amministrazione delle co­se» capace di sostituire il govemo degli uomini. La politica senza anima che oggi si mostra negli apparati della governance. Alla luce del liberalismo realista, de la Grange ricor­da che il problema con il quale è indi­spensabile confrontarsi è dato dall’indi­viduazione di modalità di controllo e di limitazione del funzionarismo, causa ed effetto della decadenza.

Al fine di ridare autonomia e primato al politico, i tempi chiedono una risposta teoricamente forte. Il politico deve almeno tornare ad essere pensato come il luogo della deci­sione. Il libro che abbiamo sinteticamente presentato è, allo scopo, estremamente stimolante.