La libertà appassisce se non si litiga, di Antonio Carioti, «La Lettura – Corriere della Sera.it», 10 settembre 2014
Il liberalismo è un fiume con affluenti e diramazioni in quantità. Vi si può giungere studiando la filosofia o l’economia, lo si può sostanziare di motivazioni del più vario genere. Ma a sorreggerlo è soprattutto la consapevolezza dell’imperfezione e della fallibilità umana. Prendiamo due figure simili per l’elevata fibra morale, unite dall’opposizione al fascismo, ma assai diverse per carattere, impostazione culturale e visione politica: Benedetto Croce ed Ernesto Rossi. Il filosofo napoletano, maestro dell’idealismo, era per la continuità dello Stato risorgimentale, nel quale scorgeva una congenita vocazione alla tutela della libertà. L’economista fiorentino, spirito empirico per eccellenza, avrebbe voluto sbaraccare quello stesso Stato e rifarlo da cima a fondo, tanto gli apparivano profonde le sue incrostazioni autoritarie e parassitarie. Eppure in loro c’è una inestirpabile radice comune, che due recenti libri mettono in evidenza.
Con il saggio Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce (Liberilibri) Giancristiano Desiderio ha offerto al lettore poco avvezzo alle vette del pensiero speculativo un buon prontuario per conoscere la biografia del filosofo e orientarsi nel vasto mare delle sue opere. C’è tutto dell’uomo Croce: la perdita precoce dei genitori e della sorella, la felicità distrutta dalla morte dell’amata Angela Zampanelli, l’amicizia infranta con Giovanni Gentile, la feconda collaborazione con l’editore Giovanni Laterza, la solitudine e l’angoscia negli anni dei totalitarismi trionfanti.
Quanto al liberalismo crociano, Desiderio lo fa discendere dall’avversione al «cortocircuito totalitario tra verità e potere», nel quale era caduto invece Gentile. Croce, scrive l’autore, mostra che «ogni potere illimitato è illegittimo, perché è arbitrario e irrazionale un sapere assoluto che esprima totale padronanza sulla vita». Di qui la sua religione della libertà «incentrata sullo svolgimento e sulla diversità e opposizione delle attività umane che diversificandosi e opponendosi accrescono di continuo la vita e le danno significato».
Lo stesso assillo si ritrova nel Breviario di un liberista eretico (Rubbettino), in cui Gianmarco Pondrano Altavilla ha raccolto e commentato brevi e ficcanti brani tratti dagli scritti di Rossi, con prefazione di Gaetano Pecora. Anche qui l’esigenza primaria, trasposta sul piano economico, è tenere vivo il conflitto attraverso l’iniziativa privata, arginando l’invadenza di un potere che si presume onnisciente. Se la politica sostituisce il mercato nell’allocazione dei fattori produttivi, ammonisce Rossi, scompare «la libertà di scelta» dei cittadini. Infatti in tal caso «ogni attività non rigidamente pianificata dal centro costituirebbe un ostacolo, o almeno una causa di turbamento, all’attuazione dei piani disposti, dalla classe governante, con una visione d’insieme di tutti gli elementi del sistema».
Ovviamente alla sintonia ideale possono corrispondere forti divergenze sulle scelte concrete. Desiderio fustiga la «mistica della purezza» che nel 1944 indusse il Partito d’Azione, cui aderiva Rossi, all’intransigenza verso i Savoia, in contrasto con la cautela compromissoria di Croce. Ma la sua ricostruzione non regge, poiché attribuisce al secondo governo Badoglio, nato su iniziativa del grande filosofo e del leader comunista Palmiro Togliatti, un’importanza che non ebbe, poiché durò solo due mesi per lasciare il campo, dopo la liberazione di Roma, proprio a una soluzione di superamento della continuità statale voluta dal Pd’A. Illuminanti, a tal proposito, sono le considerazioni svolte nel 1945 da un altro azionista, Bruno Visentini, nel libro Due anni di politica italiana, ora riedito da Aragno a cura di Sandro Gerbi.
D’altronde va ricordato che spesso la fermezza antifascista degli azionisti sfociava in un eccesso di sfiducia verso gli italiani, che al regime littorio avevano in gran maggioranza aderito. Visentini era contro il referendum per decidere tra monarchia e repubblica, poiché temeva la diseducazione politica delle masse. Addirittura Rossi, in un brano riportato nell’antologia curata da Pondrano Altavilla, propone come antidoto alla partitocrazia la scelta dei parlamentari per sorteggio, ma solo tra i «cittadini che avessero determinate qualità». Non era solo il liberalismo conservatore di Croce a provare qualche disagio dinanzi al funzionamento reale della democrazia.
Giancristiano Desiderio, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce, Liberilibri 2014, pagine 376, € 18
Ernesto Rossi, Brevario di un liberista eretico, a cura di Gianmarco Pondrano Altavilla, prefazione di Gaetano Pecora, Rubbettino 2014, pagine 105, € 10
Bruno Visentini, Due anni di politica italiana (1943-1945), a cura di Sandro Gerbi, Aragno 2014, pp. 101, € 10
La vita intellettuale ed affettiva di Croce, di Pietro Di Muccio de Quattro, «L’Opinione», 6 settembre 2014
La ‘Liberilibri’, una piccola casa editrice che, se in Italia esistesse un partito o un gruppo o un mecenate, liberali non sedicenti, dovrebbe esserne sostenuta per l’opera, indispensabile qui da noi, di diffusione del liberalismo senza aggettivi qualificativi, ha aggiunto un altro libro sullo scaffale della libertà.
E’ la “Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce” scritta da Giancristiano Desiderio, vero conoscitore della vita e del pensiero del Maestro. Si tratta di un corposo saggio dallo stile piano ed accattivante, che intreccia gli episodi salienti dell’esistenza, anche intima, del Filosofo con il dipanarsi complesso ed ininterrotto delle sue meditazioni sull’essenza della storia umana. Lo spirito e i fatti, le vicende personali e gli accadimenti pubblici: tutta la vita vive in Croce, che indefessamente analizza, distingue, cataloga; e riduce ad unità. Tra l’altro, vita e pensiero di Croce sono un modello ideale di educazione per i giovani. Egli non fu mai indulgente con il ‘giovanilismo’ che ciclicamente ritorna ed additò alla gioventù il cammino del dovere civico, dell’affrancamento attraverso la laboriosità, dell’elevazione mediante la pratica della virtù.
Per Benedetto Croce vivere e filosofare sono tutt’uno. Non è affatto azzardato, anzi è appropriato paragonarlo, quanto ad essenziali aspetti etici e filosofici, a un Socrate. Con questa particolare differenza, che Socrate è un contemporaneo anche per chi ne ricorda solo il nome, mentre Croce è un anacronismo pure per chi deve conoscerlo per cultura e mestiere. Invece, egli resta una vera guida spirituale per contemporanei smarriti fra il troppo e il nulla. La scuola, in ciò, ha colpe imperdonabili perché ha sottratto e sottrae alle generazioni successive non un’oscura gnoseologia, ma la chiara filosofia della verità e della libertà, che in lui furono cementate nel vivere, alla maniera dei filosofi antichi. Al “Manifesto degli intellettuali fascisti” rispose con il “Manifesto degli intellettuali antifascisti”. Rifiutò di compilare il questionario imposto dalle leggi razziali. Durante il fascismo e durante la resistenza egli fu la luce contro la tenebra nera. Fu eletto alla Costituente. Rifiutò la nomina a senatore a vita. Agì in prima persona per ristabilire la libertà in Italia, contro i fascisti e contro i comunisti, per ri-incanalare la Patria sulla strada tracciata dal Risorgimento.
Il libro di Giancristiano Desiderio descrive, in modo esemplare, “la vita come opera filosofica” di Benedetto Croce. Nella prefazione, l’Autore non manca di sottolineare un punto essenziale della sorte di Croce e, perciò, dell’Italia, con le conseguenze che ancora perdurano. Scrive Desiderio: “Lo cultura liberale, della quale Croce fu ed è il rappresentante più alto e significativo, non fu criticata ma marginalizzata. Il lettore vedrà come fin dal 1944, proprio mentre Croce lavorava alla riconquista della libertà e al suo rafforzamento, Palmiro Togliatti, che sedeva al tavolo del governo con il filosofo liberale, lo aggredì provando subito ad attuare la strategia ideologica secondo la quale Croce non andava affrontato con le armi della critica bensì con la critica delle armi. Un grave errore che aveva in sé la violenza e la manipolazione della storia che non tardarono a manifestarsi nell’Italia repubblicana”.
Il libro è arricchito da un interessante saggio bibliografico, dalla bibliografia completa delle opere di Croce e da un’utile bibliografia critica. Considerando l’importanza del volume e la dovizia dei particolari, sarebbe di pratica utilità un indice analitico per ritrovarli: modesto suggerimento all’Autore, per la seconda edizione.
Benedetto Croce, il duro mestiere di vivere, di Pier Luigi Razzano «la Repubblica», 22 marzo 2014, pag. XIII
DIETRO l’opera, l’uomo.
Con le ferite profonde, che timbrano l’esistenza. Cruciale il terremoto del 1883 di Casamicciola. Novanta secondi e fu la devastazione per il diciassettenne Benedetto Croce in vacanza a Ischia, che si vide strappare entrambi i genitori e la sorella Maria. Evento che lo segnò, accompagnandolo con un’ombra di morte, generatore di «un’angoscia acuta », in gioventù, divenuta «cronica », poi addomesticata negli anni della maturità. «Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio», confiderà Croce nel “Contributo alla critica di me stesso”, allontanandoli, tenendoli a bada attraverso una tensione per la vita da comprendere, studiare, quindi affrontare.
Con un affondo nell’animo inquieto del filosofo, nel suo cuore messo a nudo, Giancristiano Desiderio entra con “Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce” — biografia pubblicata a distanza di più di cinquant’anni da quella classica del collaboratore e amico di Croce, Fausto Nicolini — ne sottrae la figura dalla visione olimpica, che lo relega a monumento «più noto che conosciuto ». Lo restituisce alla dimensione di uomo, filosofo, non di professore di filosofia, che non fu mai. Citando Giordano Bruno, Croce fu «filosofo di nulla accademia», per uno studio calato nella vita degli uomini, lontano da ogni tipo di dottrinarismo, messo di fronte alla Storia.
Attraversandone la monumentale opera, con tono appassionato, intenzionato ad avvicinare Croce a una nuova generazione, Desiderio racconta gli anni della formazione liberale con Silvio Spaventa, la spinta alla filosofia con Labriola, la catastrofe della prima guerra mondiale, l’impegno politico sotto il governo Giolitti, l’amicizia fraterna con Giovanni Gentile fino all’insanabile frattura. Poi «la calata dei barbari » durante il fascismo, gli anni della ricostruzione, affrontando sempre «il primato della libertà», perché «il peggio del peggior passato può sempre tornare, sebbene torni in condizioni sempre nuove». Riporta la figura di Croce nella sua quotidianità, le passeggiate tra i librai e quelle serali, le riunioni in casa con Di Giacomo, Michelangelo Schipa, Roberto Bracco, e i giorni trascorsi a Palazzo Arianello in via Atri, il trasferimento a Palazzo Filomarino, insieme alla romagnola Angelina Zampanelli. Con lei una storia d’amore «bella e dolorosa »: gli fu vicina dal 1893 fino al 1913, quando morì prematuramente. L’altra ferita nella vita di Croce, che a Renato Serra scrisse: «Saprò io serbarmi, nel vuoto in cui mi trovo ora, pari ai miei ideali?». Poco dopo sposò Adele Rossi, dalla quale ebbe quattro figlie, ma perse il maschietto Guido, ad appena un anno. Ciclicità di dolori e gioia, però tenace, pronto a reagire di fronte al «duro lavoro di riprendere la vita».
Un problema irrisolto con la filosofia di Croce. Una sindrome italiana, di Corrado Ocone, «Reset», 13 marzo 2014
C’è sicuramente un terzo spazio, che è forse semplicemente lo spazio della filosofia, fra la confusione e l’eccentricità mentale e il dottrinarismo. Dottrinario è chi, per dirla con Luigi Scaravelli, applica in modo meccanico, deterministico, rigido, i propri “schemi” mentali a fatti, autori, eventi. Senza preoccuparsi troppo di entrare nelle tensioni e contraddizioni che muovono alla vita il pensiero, ogni pensiero, soprattutto quello di un classico. Non esistono “modelli” astratti, validi sempre e comunque, né de jure, ma nemmeno de facto, . Prendiamo il liberalismo. Non c’è un autore, dico un grande autore, che rientri appieno nel modello idealipico che del liberalismo si sono costruiti certi amici liberali italiani, che sia detto per inciso apprezzo e stimo moltissimo. E che applicano in maniera astratta. Forse non è il loro caso, ma penso che dietro la mentalità del “dottrinario” ci sia un sentito bisogno di rassicurazione. Mentre il liberalismo, che come dicevano ad esempio sia Benedetto Croce sia Josè Ortega y Gasset è una prospettiva sofisticata, e per molti aspetti controintuitiva, è fatto per inquietare, disturbare, far perdere certezze piuttosto che acquisirne (il dubbio scettico è un elemento centrale per i liberali). Queste considerazioni mi venivano in mente domenica nel leggere sulla “Domenica “ del “Sole 24 ore” la recensione che Giuseppe Bedeschi ha fatto dell’importante biografia crociana di Giancristiano Desiderio appena uscita per i tipi di “Liberilibri”: Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce (pp. 326, eutro 29). Già il titolo della recensione, che comunque non è responsabilità di Bedeschi, mi aveva colpito: “Liberale, ma in tarda età”. Il destino di Croce, come in genere quello dei grandi filosofi, ma nel suo caso ancora di più, è sempre racchiuso in un “ma”, una riserva. Che il dottrinario non può non avere. Ed ecco, quindi, che il suo liberalismo è giudicato di volta in volta inautentico, anomalo, monco, imperfetto. Ora che il pensiero di Croce non debba essere considerato un feticcio, così come il suo liberalismo, è ovvio. Ma qui non si tratta di normali critiche, ma di critiche che nascono, a mio avviso, da incomprensione. O meglio da pregiudizio. Un pregiudizio che a volte è persino inconscio, atavico. Croce è quasi un elemento estraneo, non risolto, non metabolizzato, della cultura nazionale. Ognuno si costruisce il suo anticrocianesimo fatto di incomprensione e risentimento: i laici, gli scientisti, i cattolici, persino appunto i liberali. Fra tanti convegni, uno sugli “Anticroocianesimi”, al plurale, sarebbe davvero significativo, se non altro per mostrare come molte delle tesi affermate si elidano a vicenda. E’ paradossale, ma Croce, invece di essere considerato una “gloria nazionale” qui da noi, è studiato e considerato uno dei più grandi pensatori italiani di ogni tempo più all’estero che non nel nostro Paese (aprite un qualsiasi Dizionario di filosofia straniero e vi accorgerete che non sto dicendo il falso). Ma tant’è! Veniamo al “fuoco amico” (siamo in casa liberale) di Bedeschi. Dopo aver elogiato, come è più che giusto che sia, il libro di Desiderio, Bedeschi sferra subito un attacco a Croce di marca bobbiana, come lui stesso dice: il filosofo napoletano non solo si sarebbe occupato di liberalismo solo in tarda età, dopo il sopraggiungere del fascismo, ma si sarebbe addirittura formato su autori “estranei ed ostili alla tradizione liberale”. A cominciare dalle pagine di quel Marx a cui dedicò, giovanissimo, vari saggi. Ora, a questo proposito, vanno considerate almeno tre questioni: 1) Croce si è molto occupato di Marx da giovane, ma già allora lo ha aspramente criticato “da liberale”. Se si prende in mano il suo volume di studi marxisti, si resta impressionati: la sua critica sembra essere stata scritta oggi, puntando proprio su quegli elementi (il determinismo, l’economicismo, l’incapacità di prevedere lo sviluppo delle società capitalistiche, i limiti della teoria del valore-lavoro) che sono gli stessi su cui i liberali insistono attualmente; 2) fra gli autori su cui Croce si è formato e che Bedeschi cita (Machiavelli, Sorel, Treitscke), la più parte appartenevano non a caso alla tradizione del realismo politico: lo sforzo di Croce è stato infatti sempre quello di concepire il liberalismo in stretta connessione con esso, secondo un movimento di pensiero che è stato proprio di tanti altri liberali del Novecento (Raymond Aron, Isaiah Berlin, Michael Oakeshott, Bernard Williams…); 3) per un liberale, come più di tutti ci ha insegnato Berlin, è generalmente più importante un autore che la pensa diversamente che un autore che lo conferma nelle proprie idee: il momento “negativo”, contrastivo, dialettico, è vitale per una dottrina/non dottrina, non ideologica e non sistematica. Particolarmente importante è il secondo punto, tanto che Bedeschi subito dopo se la prende con la critica crociana del giusnaturalismo. Ed è davvero un punto capitale: la dottrina dei diritti per Croce non solo non è liberale, ma è semplicemente l’opposto di una concezione spontaneistica e non deterministica. Infatti, chi crede che esistano dei “diritti naturali” o “umani” o semplicemente tali che, come “caciocavalli appesi”, pertengano agli individui in quanto tali, prima o poi crederà di averli individuati in modo definitivo e vorrà pure “applicarli” al corpo sociale. Caso mai, nella convinzione di fare il bene degli individui stessi. Che è un modo di ragionare tipico della mentalità giacobina, non liberale: posizioni come quelle odierne di Rodotà discendono pe’ li rami dal giusnaturalismo, bisogna convincersene! Laddove per i liberali, propriamente, i diritti non vanno né fondati né promossi, esistendo solo come nella lotta e nel conflitto, non certo come entità sovrastoriche. Per il liberale, come d’altronde direi per tutta la filosofia contemporanea, non esiste in effetti nemmeno l’individuo inteso come entità ab-soluta, sciolta da ogni nesso, compatta, sostanzialistica (tipo il Soggetto cartesiano della prima modernità). Quindi, Croce è un critico dello Stato molto più radicale di quanto non lo siano molto liberali dottrinari. E lo è perché egli spariglia completamente il tavolo da gioco: esce fuori del gioco a somma zero dato dalla alla coppia dicotomica Stato-individuo, tipica della modernità politica o dell’età primo-moderna in quanto tale. In una parola, oltre lo Stato e l’Individuo per Croce c’è la Storia. Che è poi null’altro che il tanto frainteso Spirito di cui egli parla nel senso del Geist della lingua tedesca (e non dell’ ésprit francese). Per quanto concerne infine la questione dei rapporti fra Croce e le scienze, devo dire che mi sono un po’ stancato di ripetere alcuni elementi autoevidenti sol che si esca un attimo dai luoghi comuni: rimando a quanto detto in questo blog a più riprese. Faccio solo una domanda, retorica: quanti sono i filosofi che nel Novecento, come Croce, hanno considerato il metodo scientifico ad un livello paritario rispetto a quello storico-filosofico? E parlo di metodo e non di discipline, non a caso. Per il filosofo napoletano, la stessa “filosofia” usa tantissimo il metodo scientifico; e contrario.
Vita privata di un filosofo: il Croce dimenticato, di Gennaro Malgieri, «Il Giorno», 28 febbraio 2014
L’esistenza di Benedetto Croce si è intrecciata con la storia italiana come raramente è accaduto ad altri intellettuali che pure hanno avuto un’influenza non marginale nelle vicende tumultuose e tragiche che hanno caratterizzato la prima metà del Novecento. Il “filosofo napoletano”, nato in Abruzzo, segnato precocemente dalla tragica perdita dei genitori e della sorellina, vittime del terremoto di Casamicciola, nel 1883, è stato pensatore poliedrico ed innovatore degli studi filosofici, ma anche appassionato letterato e politico che ha dato un contributo civile alla costruzione dell’Italia post-risorgimentale, immaginandola fondata sull’ “amor di patria”, espressione “desueta” per sua stessa ammissione.
Un “amore” cementato dal culto della libertà come elemento qualificante della vita associata e prevalente perfino sulla giustizia. Croce è stato tante cose, ma non si è mai perso il “piacere” di coltivare quella malinconia che interiorizzò fin da adolescente e che si rinnovò per esempio nella morte prematura di Angelina Zampanelli, il grande amore della sua vita, donna bellissima ed incantatrice, tale da suscitare una passione avvolgente oltre ad ispiratrice alcuni dei momenti creativi più felici del filosofo. Di tutto questo e di altro ancora, ci racconta Giancristiano Desiderio nella sua intensa, documentata e scintillante biografia di Croce che arriva cinquant’anni dopo quella famosissima di Fausto Nicolini a colmare un vuoto che tanti studiosi hanno lasciato dilatarsi.
Eppure di occasioni per tornare a discutere di Croce attraverso la narrazione della sua intensa vita non ne sono mancate: dal rinfocolarsi periodico delle discussioni su Giovanni Gentile, del quale fu sodale, amico e poi implacabile avversario, alle riflessioni sul Trattato di pace che il filosofo alla Costituente denunciò come un’offesa all’Italia nello sbigottito e vile silenzio della nuova classe dirigente repubblicana, alle ricorrenti critiche al Potere che nella filosofia civile crociana trovano un fondamento non discutibile. Desiderio ha il merito di riportare alla luce questo magma di pensieri.
I doveri della libertà. Vita (anche affettiva di Benedetto Croce), di Dino Cofrancesco, «il Giornale», 25 febbraio 2014, p. 25
Studioso attento e competente del pensiero di Benedetto Croce, come mostrano i suoi studi sul carattere civile della filosofia di Croce, su Croce abruzzese, su Croce sannita o il parallelo tra Croce, Hannah Arendt e Isaiah Berlin, per limitarci a questi, Giancristiano Desiderio pubblica ora, per Liberilibri, uno straordinario quadro del mondo culturale, letterario e politico del più prestigioso filosofo e storico del Novecento italiano, Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce (Liberilibri, pagg. 376, euro 19). Si tratta di un denso volume che, a mio avviso, potrebbe costituire, per le giovani generazioni, un’introduzione tanto agile quanto utile alla «vita e i tempi di Benedetto Croce» di cui si sentiva la mancanza, dopo la biografia classica di Fausto Nicolini. Fedele allo spirito del suo Autore, Desiderio sostiene che «le opere di pensiero della filosofia dello spirito, come le cose minori, si schiariscono e comprendono se sono viste sorgere dalla loro radice esistenziale giacché il pensiero crociano non è accademico ma nasce dalla vita per la vita».
È impossibile dare una sia pur pallida idea degli infiniti temi affrontati in questa Vita intellettuale e affettiva: dal ruolo svolto da Croce nel dare una coscienza civile e un solido fondamento spirituale alla Nuova Italia da lui amata così intensamente – «Tutto il mio essere intellettuale e morale è venuto fuori dalla tradizione liberale del Risorgimento», dichiarerà – ai suoi drammi familiari, dal terremoto di Casamicciola in cui perse i genitori alla morte di Angela Zampanelli, la donna amata che gli aveva ridato il gusto della vita e il piacere intenso di un’attività intellettuale prodigiosa e instancabile. La prima guerra mondiale, il breve impegno politico nell’ultimo Ministero Giolitti, la rottura con Giovanni Gentile, l’opposizione intransigente al fascismo dopo la prima comprensione, la redazione del Manifesto degli intellettuali antifascisti, l’opposizione al Concordato, il dramma dell’alleanza con la barbarie nazista, l’impegno faticoso nel ricostituire un tessuto civile nell’Italia della guerra civile, la difesa orgogliosa, contro l’umiliazione del dettato di pace, della nazione costruita dai Cavour e dai Silvio Spaventa: sono i capitoli più significativi del racconto di Desiderio, che non nasconde mai la sua ammirazione nei confronti di don Benedetto, sempre difeso e giustificato anche nelle scelte più problematiche.
Nel libro si fa giustizia di tanti luoghi comuni ancora oggi non del tutto superati: il conservatorismo di Croce, il suo provincialismo, la sua relativa lontananza dal liberalismo moderno. In realtà, «Croce non ebbe dubbi: tra l’idea di giustizia e l’idea di libertà, il primato spetta alla libertà perché in una società libera è possibile perseguire la giustizia mentre in una società giusta non sempre è possibile perseguire la libertà». Desiderio sottolinea a più riprese la valenza liberale di una filosofia che distingue l’economia dall’etica, il bello dal vero, le esigenze di quei leviatani dalle viscere di bronzo che sono gli stati dagli imperativi della coscienza morale. La grandezza del «Seneca morale» del 900 sta nella sua protesta contro la «concezione governativa della morale», in uno storicismo che «nel passaggio dal pensiero all’azione mette capo alla libertà civile», nell’idea che «vita è libertà e libertà è pluralità» e che la filosofia come giudizio o storiografia, è «storia pensata» che ha il compito di liberare l’uomo dal passato e di aprire una strada sul futuro.
Nel pensiero di Croce rimangono però alcuni nodi da sciogliere. L’idea che la libertà trascenda le concrete istituzioni (politiche, economiche, culturali) in cui gli uomini si trovano ad operare – è il tema della polemica con Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo – porta Croce ad esiti paradossali: a scrivere ad esempio, che in guerra possono imporsi rinunce e limitazioni della libertà personale ma non pertanto i cittadini sono servi o oppressi, perché anzi si sentono «liberi quanto e più di prima». E no! Isaiah Berlin avrebbe rettificato che può essere anche opportuno sospendere le garanzie della libertà ma non pertanto ci si sente «liberi quanto e più di prima» se qualcuno limita drasticamente il nostro spazio vitale.
La stessa svalutazione dei «concetti», alle origini della diffidenza verso la sociologia, desta non poche perplessità. Dire che due stati sono monarchici, per Croce, non significa niente «perché quel che importa storicamente non sono le astratte forme ma la concreta realtà politica e morale». Già, ma che cosa potrebbe, poi, rendere diversi i due stati, al di là delle comuni, astratte, forme istituzionali? Un’ipotesi potrebbe essere che la cultura civica dell’uno è protestante mentre quella dell’altro è cattolica: e non sarebbero anche questi «concetti» riferiti a realtà sociologiche che dovrebbero poi venir riconosciute dalla comunità scientifica per assumere il valore di una credibile spiegazione causale?
Sono i problemi sui quali si cimentarono i Max Weber e i Raymond Aron ma che raramente i commentatori classici di Croce hanno preso in considerazione, ove si eccettuino, in Italia, i Bruno Leoni, i Giovanni Sartori, i Mario Stoppino e altri.