È il 1965. Un giovane avvocato si sveglia in un letto d’ospedale dopo un sonno lungo dieci anni. Torna a Parigi e subito si dirige al Palazzo di Giustizia, ma lo trova disabitato e silenzioso; c’è solo un rumore lontano che proviene dalla Sala dei passi perduti. E proprio lì lo attende la prima di molte sorprese: la sala è stata trasformata in una piscina dove gli avvocati si dedicano al nuoto sincronizzato. Neppure la Facoltà di giurisprudenza esiste più, gli spiegano, basta una visita guidata al Palazzo per apprendere il necessario sul diritto. Incredulo, l’avvocato si unisce a una di queste lezioni itineranti. Che cosa ne è stato della vecchia giustizia? Lo scoprirà presto: non c’è più. Tutto è affidato alle J.M. o Justice Machines, apparecchi cibernetici che estraggono le sentenze a sorte, come in una lotteria.
E non è che l’inizio delle sue avventure.
Distopia giudiziaria nella forma del conte philosophique, capriccio letterario memore di Rabelais e di Borges, Justice Machines illumina il legame antichissimo (e forse avveniristico) tra il diritto e il caso.