Il no disperato

Alla scoperta delle radici del pessimismo di Giacomo Leopardi e del suo essere un pensatore della crisi.

Postfazione di Ignacio Carbajosa

Pagine 144

ISBN 978-88-98094-54-7

Prima edizione 2018

Seconda ristampa 2019

Il prezzo originale era: 13,00 €.Il prezzo attuale è: 12,35 €.

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Cosa si può dire ancora su Giacomo Leopardi? La grandezza dei classici sta proprio qui: essi sono una continua fonte di comprensione della realtà in cui viviamo. In questo breve saggio, Mario Elisei ci guida con chiarezza alla scoperta delle radici del pessimismo del grande poeta. Da quali rapporti familiari, da quali riflessioni personali, da quali problemi fisici è nato il nucleo del suo pensiero? E cosa c’è alla base della feconda contraddittorietà nella sua opera?

Fondandosi soprattutto sullo Zibaldone e sull’epistolario, Elisei scopre come Leopardi non sia soltanto un formidabile poeta e filosofo, ma un pensatore della crisi. Attraverso la sua dolorosa esperienza personale, Leopardi ha decodificato il senso di una crisi che da individuale si fa collettiva. E questo rende il grande poeta anche una guida per comprendere meglio la nostra complessa contemporaneità.

Il pessimismo di Leopardi? Ottimo ritratto della modernità, di Giancristiano Desiderio, «il Giornale», 4 maggio 2019

Il «no» di Leopardi alla tragicità della vita, che offende i nostri desideri e delude le nostre speranze, è un «no» così disperato ma così disperato da essere quasi un «sì». Per il poeta del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia – «È funesto a chi nasce il dì natale» – la vita può essere degna di essere vissuta se essa stessa, la vita, è più forte della ragione e le virtù, il bene, il bello, persino il progresso, sono delle illusioni forti e necessarie che consentono agli uomini di essere come se vivessero nel bene e nel meglio, altrimenti l’arida verità dissolve tutto e mostra che «tutto è nulla» e «tutto è male».

Aveva ragione Francesco De Sanctis, nel suo celebre saggio su Schopenhauer e Leopardi, quando notava che il pessimismo leopardiano produce l’effetto contrario a quello che si propone: «Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto». Sarà per questo motivo che Giacomo Leopardi è sì un classico, ma anche un nostro contemporaneo, quasi uno di noi perché «anche a noi i conti non tornano» e ci sentiamo a volte tristi e disperati e ci sorprendiamo a pensare, contro noi stessi, che tutto ciò che abbiamo di bello e di buono è illusione e nonostante il dubbio o il tarlo che ci buca l’anima andiamo avanti, non foss’altro perché indietro, ai giorni della felice fanciullezza, non ci è dato ritornare. Giacomino, dunque, come uno di noi.

Il senso del libro di Mario Elisei, Il no disperato (Liberilibri, pagg. 144, euro 13), è qui: Leopardi come grandissimo poeta e va bene, come filosofo e va bene con riserva, ma anche Leopardi come «pensatore della crisi» che attraverso la dolorosa esperienza personale ci dà la cifra di una condizione umana universale nella quale noi stessi, dopo la fine dei grandi racconti metafisici, ci dibattiamo facendo a pugni con «l’ospite inquietante» del niente, come lo chiamò Nietzsche. La genesi del pessimismo di Leopardi è da vedersi sia nella strage delle illusioni che è nella vita individuale di ognuno di noi; sia nella sua condizione di salute in cui la malattia diventa – ancora una volta come in Nietzsche – quasi un organo di conoscenza, persino al di là delle intenzioni di Leopardi; sia, e soprattutto, nello studio «matto e disperatissimo» con cui il poeta dei Canti volle creare un sistema filosofico con le Operette morali. Il libro di Elisei, studioso del pensiero di Leopardi, si sofferma su quest’ultimo aspetto e, considerando lo Zibaldone e l’epistolario, mostra il «nascimento» della filosofia di Leopardi.

Non è la prima volta che ci si sofferma sul Leopardi filosofo. Qualche tempo fa lo fece anche Emanuele Severino con il libro Il nulla e la poesia, in cui si evidenziava che Leopardi, come Eschilo, è un maestro di nichilismo che vede nella poesia «l’ultimo rifugio». Ora Elisei ripete l’operazione sia con la novità testuale, sia con l’attenzione al Leopardi interlocutore di Locke, d’Holbach, Condillac.

Non è il caso qui, né altrove in verità, di portare a spasso il lettore. Piuttosto, vale fermarsi sul punto centrale che è quanto Leopardi scrive nei suoi diari in data 17-18 luglio 1821: «Nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all’esperienza». Ma se non c’è un «principio di ragione» che sia anteriore all’esperienza o che sia l’esperienza medesima, allora si distruggono quelle che Cartesio chiamò le idee innate o verità eterne e si distrugge, come dice Leopardi, Dio stesso che «è il nulla» e, insomma, tutto cade e viene meno e in luogo dell’essere si insedia il non-essere. Qui Leopardi chiude il passo con parole che ancora una volta anticipano quanto Nietzsche dirà nel Crepuscolo degli idoli, ossia che «il mondo vero divenne favola»: «Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio». Non solo. Perché separando vita e pensiero Leopardi, alla maniera di Gorgia, distrugge la stessa possibilità della filosofia e trasforma l’essere in fatalità e l’uomo, privo di governo, è una foglia in balìa dei venti e dei suoi desideri irrealizzabili.

A ben vedere, risiede qui la genesi del pessimismo: nell’edonismo che si capovolge in tragedia, nella promessa felice che diventa infelice e risentita verso la vita. Anche questo, in fondo, il nostro tempo ha in comune con Leopardi mentre, per una volta, è distante da Nietzsche, il quale davanti al dramma del fato lo amò non dicendo «no» ma «sì» alla vita.

 

Il bancario con la missione di trasformare Leopardi nella rockstar della poesia, di Giorgio Gandola, «La Verità», 9 aprile 2019

 

Porta il Leopardi a fare un giro nella giungla della modernità. E ha un successo inatteso, come Roberto Benigni con Dante Alighieri, come Paolo Poli buonanima ebbe con Alessandro Manzoni. L’anno scorso, fra dialoghi e conferenze, ha accontentato 1.700 persone; quest’anno a marzo sono già 1.100 con proiezione stellare del grafico e una fila che preme. Merito del fascino ritrovato del signor conte, ma soprattutto della dedizione e del magistero di un funzionario di banca di Recanati, Mario Elisei, che ha 57 anni e una passione folle per il Grande Pessimista tanto da trasformarlo da romantico e arrovellato autore ottocentesco in una rockstar all’infinito.

«Forse dipende dal fatto che non mi sento una guida turistica, ma uno scrittore. Non spiego i luoghi, ma cerco di restituire l’anima di chi li ha frequentati e descritti con le sue immortali parole. Il successo di Giacomo Leopardi in questi anni è stupefacente, tutto il territorio recanatese ne trae beneficio». Recentemente il Sunday Times ha pubblicato un articolo in cui si consigliano i lettori a lasciar perdere la Toscana e visitare le Marche, definite «regione piena di segreti». E fra i motivi della deviazione c’è Recanati sulle orme di Leopardi, con le tappe, i luoghi, le suggestioni che proprio Elisei raccolse nel primo libro II mio amico Leopardi, pubblicato nel 2014, vera e propria miccia di un incendio culturale che arde scoppiettando. E che gli ha permesso nel gennaio scorso di dare alle stampe Il no disperato (edizioni Liberilibri), un viaggio alle radici del pessimismo del grande poeta.

Italian Rhapsody, adesso il passero solitario ha una certa compagnia e intervistare Elisei non è proprio l’operazione più semplice; bisogna raggiungerlo al telefono in macchina sulla strada per Formia, dov’è atteso per l’ennesima conferenza. Il carnet pieno e la seconda vita è pronta, lontano dallo sportello bancario. «Sto pensando di saltare il fosso, anche perché questa è una passione che nasce da una preoccupazione educativa. Attraverso Leopardi posso aiutare le persone ad affinare la coscienza». L’aspetto è decisivo perché ci fa capire quanto sia attuale, in una società dell’apparenza e della nuotata culturale in superficie, un autore così profondo.

«Leopardi ha una tale potenza evocativa da produrre l’effetto contrario rispetto a ciò che si propone di teorizzare. Aveva capito tutto Francesco De Sanctis: «Leopardi non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla li­bertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende un desiderio inesausto. […] È scettico, e ti fa credente».

Da quando aveva 16 anni, Elisei non ha un calo di passione. Lo chiamano nelle biblioteche, nelle scuole, ai Rotary, ai Lions; nella sala conferenze del centro culturale Giacomo Leopardi è un punto fermo. Ed è l’esempio più recente e cristallino di come la cultura italiana – anche se a fatica e con sacrifici personali – può provare a diventare business. La squadra è motivata e affiatata: la presidente del Centro leopardiano Milena Tacconi (nonché insegnante del liceo classico che a Recanati non poteva certo chiamarsi Carducci o Pascoli o Volta), sua moglie Stefania e suo fratello Roberto sono le guide turistiche, lui funge da baricentro culturale. Tutto torna. Casa Leopardi, il colle dell’Infinito (poesia che nel 2019 celebra il bicentenario), la casa di Silvia, la torre del Passero solitario, la torre del borgo, la chiesa dei cappuccini non hanno segreti. E i visitatori compiono un viaggio nel tempo, nello spazio e nella mente che neanche in un kolossal a tema.

Tutto cominciò grazie a  libri e giornali. «Li portava a casa mio papà e li lasciava sempre sulla stessa sedia. Una volta arrivò con lo Zibaldone in due volumi: mio fratello e io li leggemmo in parallelo, uno lui e l’altro io. E fummo travolti da una passione crescente per un testo che non legge nessuno. Giocavamo a scacchi con in palio 500 lire e chi perdeva le doveva accantonare: con quel tesoretto comprammo tutto il resto. Poi mi inventai un tour leopardiano per gli amici e la cosa andò avanti sempre più approfondita fino a quando un editore, Itaca, non ha voluto pubblicare  quei giri in Il mio amico Leopardi». Tre fattori hanno contribuito alla riscoperta del poeta più elitario, depresso e sublime della letteratura. II film di Mario Martone, Il giovane favoloso, che ha innescato un ritorno clamoroso, con la moltiplicazione delle visite a Recanati. Un corposo investimento sulla cultura da parte dell’amministrazione. E un passaggio ritenuto fondamentale da Elisei: «Finalmente Leopardi è stato tolto dalle mani dei critici ed è stato restituito alla gente. Alle casalinghe, agli idraulici. Così ha ritrovato i suoi amici naturali. In fondo il mio scopo è far sì che la gente comune legga le poesie di Leopardi; dentro c’è una modernità profetica».

Lo spiega nel libro II no disperato, dove riesce ad andare oltre il concetto accademico del pessimismo senza domani, della penombra senza lumi nei dintorni. «Lui è un grande pensatore della crisi. Ha lo stesso atteggiamento dei giovani d’oggi, è pervaso da quel nichilismo gaio in cui non vale la pena spendere la propria vita in nulla. Tutto è usa e getta, tutto è “solido nulla”. Sembra che lo smarrimento e la mancanza di un baricentro dei millennials coincidano con il suo pensiero. Leopardi è il primo a capire l’immensità della solitudine e a chiedere a voce alta: perché viviamo?».

Grazie a un bancario di genio, il conte Leopardi è uscito dalla biblioteca ed è tornato per strada. Passeggia, mette in fila versi annusando la primavera, ogni tanto saluta, ringiovanito per sempre. È un grande, forse il più grande. Diceva Gianni Brera che lo adorava, in un libro intervista: «Non ci vuole una cisterna di inchiostro per vincere il Nobel della letteratura. Vi mettete allo stesso tavolo tu e Leopardi. Tu hai il tuo calamaio, lui il suo. Lui intinge la penna e scrive L’infinito, tu lasci ai posteri le impronte digitali. Se fossi davanti a Leopardi starei lì a guardarlo lavorare. Era uno che faceva una fatica boia e mi divertirei a vederlo che scrive, cancella, corregge, straccia. Quando il signor conte ha finito il suo inchiostro gli passo anche il mio. Non si sa mai. Magari L’infinito va ai tempi supplementari». Meriterebbe almeno una maglietta con il suo volto a colori.

 

E se Leopardi filosofo fosse solo un bluff?, di Cesare Cavalleri, «Avvenire», 13 febbraio 2019

L’irriducibile pessimismo leopardiano è messo a tema da Mario Elisei in un saggio disinvolto e incisivo dal titolo Il no disperato (Liberilibri, pagine 144, euro 13,00). L’autore, che collabora con il Centro Culturale Giacomo Leopardi di Recanati, non è intimidito dalla maestà dell’argomento, e arriva a considerare Leopardi «ineffabile come poeta ma assolutamente privo di presa come filosofo». Di più: «Demolire il ragionamento filosofico di Leopardi non è impresa ardua. Il suo pensiero non è lineare e non conduce a nessuna ipotesi praticabile». Attingendo soprattutto allo Zibaldone, Elisei estrae brani testuali per illustrare il pensiero del poeta. Nella biografia di Leopardi c’è una data spartiacque: il 1819. Il poeta, ventunenne, soffre di una grave oftalmia che gli impedisce di leggere, essendo la lettura l’unico suo svago e nutrimento. Benché il 1819 sia anche l’anno dell’Infinito, Giacomo è sopraffatto dalla noia e «la fede cattolica in cui era cresciuto gli appare ora una delle illusioni della vita». Reagendo a un saggio di Lamennais che valorizzava il contributo del cristianesimo alla pace in Europa dopo l’avventura napoleonica, annoterà nello Zibaldone (17 novembre 1820): «Quello che uccideva il mondo, era la mancanza d’illusioni; il Cristianesimo lo salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch’egli produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i soliti effetti di una grande illusione». Il poeta si abbeverò al sensismo di Condillac, all’empirismo di Locke, si convinse dell’esperienza come unica fonte di conoscenza, elaborò una teoria del desiderio per concludere che «tutto è male. Tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male». Elisei centra il bersaglio quando si domanda: «Ma perché il sistema filosofico di Leopardi non convince? Proprio perché non fu in grado di prendere sul serio tutto il suo desiderio, non fu in grado di guardare a sé stesso e alle vicende della sua vita con un equipaggiamento adeguato, l’equipaggiamento delle evidenze ed esigenze prime». Non mancarono a Giacomo amici fidati e credenti come Vincenzo Gioberti e Pietro Giordani che rispettosamente cercarono di riaprirlo alla prospettiva religiosa. E Francesco De Sanctis aveva colto un effetto boomerang interessante: «Leopardi produce un effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È scettico, e ti fa credente». Resta dunque insuperata «la contraddittorietà del sentire umano nell’esperienza di Leopardi», come Ignacio Carbajosa ha intitolato la postfazione al saggio di Elisei. Ciò non toglie che Giacomo, sul letto di morte, abbia gradito la presenza di un sacerdote, come ha testimoniato Antonio Ranieri, l’amico che lo assistette nei suoi ultimi sette anni terreni.

 

Il no disperato, di Gabriele Ottaviani, «Convenzionali», 11 gennaio 2019

Tutte le idee che ci derivano dai sensi provengono dall’abitudine acquisita da fanciulli.

Il no disperato, Mario Elisei, Liberilibri. Postfazione di Ignacio Carbajosa. I classici, si sa, non finiscono mai di dire quel che hanno da dire, e la filosofia, l’amore per il sapere, la riflessione in merito all’uomo e a tutto ciò che lo riguarda, in prima battuta la conoscenza, specie da quando Socrate ha spostato dalla natura all’individuo il baricentro dell’esegesi, indagano la realtà in cerca di risposte, proponendo quesiti. Giacomo Leopardi non è stato solo uno straordinario scrittore, un poeta elegantissimo, ma anche, per non dire soprattutto, un intellettuale di sensibilità sopraffina, cesellata proprio dal continuo studio e dalla curiosità innata per l’altro da sé: è questo, in primo luogo, che ne rende attualissimo ancora oggi il messaggio, in un’epoca come quella contemporanea che fatica a vedere l’opportunità nella crisi, economica, politica, sociale, culturale, valoriale. Il saggio di Elisei, agilissimo, dotto e divulgativo, istruisce e appassiona: da leggere.