Paul Bloom si è imbarcato nell’impresa, a dir poco controcorrente, di dimostrare come l’empatia, ovvero la capacità di mettersi nei panni di qualcun altro, sia deleteria per le nostre vite. Bloom la paragona alle bibite gassate e dolciastre, allettanti ma non salutari. L’empatia genera piacere per la sua capacità di farci sentire coinvolti nei confronti degli altri, genera benessere perché ci fa sentire più buoni. Ma è tutt’altro che una valida guida morale e decisionale. L’empatia ci porta spesso a emettere giudizi errati e a fare scelte politiche irrazionali e ingiuste.
Con questo libro rivoluzionario e divertente, attraverso numerosi esempi tratti dalla realtà quotidiana e una documentata analisi scientifica, Bloom ci mostra come, in un mondo che reclama sempre più spazio per i sentimenti, dovremmo dare invece più spazio alla ragione. Solo così potremo prendere decisioni sensate e rendere il mondo un posto migliore.
Contro l’empatia. Una difesa della razionalità
Destrutturazione di un sentimento divenuto sinonimo di bontà e buone intenzioni.
A cura di Michele Silenzi
Pagine 312
ISBN 979-12-80447-18-0
Prima edizione 2019
Seconda edizione 2023
Seconda ristampa 2024
Il prezzo originale era: 20,00 €.19,00 €Il prezzo attuale è: 19,00 €.
Contro l’empatia. Una difesa della razionalità – Paul Bloom di Antonella Giustizieri, «My Library Blog», 24 ottobre 2019
Paul Bloom, esperto riconosciuto a livello internazionale di psicologia dell’età evolutiva e professore alla Yale University, si è impegnato in “Contro l’empatia” nell’ardua impresa di dimostrare quanto l’empatia ci porti ad esprimere giudizi sbagliati e prendere decisioni irrazionali.
Nel corso degli ultimi due anni, quando le persone mi chiedevano a cosa stessi lavorando, rispondevo che stavo scrivendo un libro. Mi chiedevano dettagli e io dicevo: “È sull’empatia.” Tendevano a sorridere e annuire quando pronunciavo quella parola, poi aggiungevo: “Sono contro.” Questo di solito generava una risata. Ero sorpreso da tale reazione, ma ho imparato che essere contro l’empatia è come essere contro i gattini – una visione considerata così stravagante da non poter essere seria.
È questa di Bloom, sin dal titolo particolarmente aggressivo e provocatorio, sin dall’incipit sopra riportato, una posizione facile da equivocare. Fino a che si intenda l’empatia nel significato dell’essere compassionevoli, dell’agire con moralità e gentilezza, del prendersi cura o di fare del bene, non è possibile, nemmeno secondo Bloom, assumere una posizione “contro”.
Quando invece si ritenga che l’essere empatici sia sentire ciò che crediamo gli altri sentano o sia sperimentare situazioni di cui gli altri fanno esperienza, Bloom sostiene che l’empatia ci induce a commettere errori. Affermare che se i medici avessero maggiore empatia sarebbero più bravi nel loro lavoro, o che se i politici fossero più empatici non sosterrebbero determinati provvedimenti, o ancora che se le persone provassero più empatia nei nostri confronti saremmo trattati meglio, secondo Bloom, è qualcosa di profondamente scorretto.
I problemi individuali e sociali non sarebbero dovuti ad una mancanza di empatia, ma addirittura ad un eccesso di empatia. Eccesso che spesso suggerirebbe una scelta emotiva quando sarebbe necessaria una scelta razionale, eccesso che porterebbe a privilegiare chi conosciamo o chi in qualche modo si sottopone alla nostra attenzione a scapito di chi non conosciamo o di cui non sappiamo nulla.
L’empatia è faziosa, di parte. Ci spinge verso il campanilismo e il razzismo. È miope, motivando azioni che potrebbero rendere le cose migliori nel breve periodo ma portare a risultati tragici in futuro.
Una guida morale scadente insomma, che potrebbe portare a decisioni ingiuste o irragionevoli.
Un saggio di lettura agevole e di chiarissima trattazione, corredato da studi scientifici ed esempi pratici, in cui ho trovato numerosi spunti di riflessione.
Contro l’empatia. Una difesa della razionalità di Federico Morganti, «Il Foglio», 19 giugno 2019
L’empatia gode quasi universalmente di buona stampa. E’ presente nelle parole dei politici, ed è oggetto delle ricerche di psicologi e scienziati cognitivi (senza dimenticare un primatologo come Frans de Waal) interessati a esplorare le basi del nostro senso morale. L’assenza di empatia è associata a qualcosa che somiglia a indifferenza, cinismo, se non crudeltà. Se tutti fossimo più empatici, il mondo sarebbe un posto migliore. Ma quanto è utile, per non dire necessaria, la capacità di “mettersi nei panni degli altri” nel risolvere i problemi, o gestire le relazioni con le persone?
Al di là di un titolo particolarmente aggressivo, quella di Bloom “è una posizione radicale, ma non così estrema”. Se il nostro concetto di empatia è sinonimo di moralità, compassione, gentilezza, difficile argomentare contro di essa. Se lo prendiamo nel suo significato più ristretto e autentico e la intendiamo come la capacità di fare nostri il punto di vista e i sentimenti degli altri, le cose cambiano. L’empatia spinge a privilegiare coloro con cui si ha un contatto immediato, a sfavore di chi è sottratto alla nostra attenzione. Un eccesso di empatia può condurre all’incapacità di agire, può suggerire una scelta di cuore, anche laddove ne occorre una di cervello. E ciò non sempre è un bene. In sede sperimentale le persone possono essere indotte a far avanzare una bambina nella lista d’attesa per l’accesso a un trattamento se gli è data la possibilità di conoscere la sua storia e immedesimarsi nel suo punto di vista, anche se ciò significa scavalcare altri soggetti (di cui non si sa niente).
E la politica, a sinistra come a destra, cavalca questo genere di sentimentalismi per indirizzare l’attenzione del pubblico verso questo o quel gruppo. E’ facile giustificare il salvataggio di aziende decotte, raccontando dei lavoratori che rischiano il licenziamento e delle famiglie le cui vite ne sarebbero colpite; più difficile illustrare i danni distribuiti di una simile scelta e quelli che derivano dal dare alla politica tale facoltà, perché i soggetti che ne sono colpiti sono lontani, talvolta non ancora nati. Insomma, troppa empatia significa scelte precipitose nel privato, elettori manipolabili nel pubblico. Meglio coltivare un distaccato senso di compassione e premura per gli altri, supportato dalla ragione e dall’analisi costi-benefici.
Una celeberrima canzone di Phil Collins (“Another Day in Paradise”, 1989) descriveva la scena di una mendicante che chiede aiuto a un passante per la strada, che se ne va imbarazzato facendo finta di non averla sentita.
Con Bloom scopriamo che, forse, da parte dell’uomo non c’era indifferenza, ma l’esigenza di dare aiuto agli altri seguendo delle regole: il non elargire donazioni se non si sa dove finiscano quei soldi, o affidarsi a mediatori di cui si conosca il valore. Una scelta che non ha a che fare con l’egoismo, ma con l’essere certi che il proprio altruismo sia efficace.
Contro l’empatia di Manuel Peruzzo, «Esquire», 10 aprile 2019
Le tecniche dei politici per ingraziarsi l’elettorato sono tante e seguono le mode. C’è l’identità, il nazionalismo, il sono-uno-di-voi, l’“in quanto” madre padre gay nero possessore di gatto, il capitale erotico (mai veramente rivendicato apertamente, mai nascosto quando lo si possiede). E naturalmente c’è l’empatia, in deficit dal 2006, cioè da quando Barack Obama, il presidente che più di chiunque altro ha abbracciato, pianto e ballato in favore di camera ci ha convinto che ci serva più dell’acqua. Stava riconoscendo un tema centrale nella politica americana.
Il video di Mitt Romney a un convegno di raccolta fondi in cui dice dei poveri “Il mio lavoro non è quello di occuparmi di quelle persone”, fu un disastro d’immagine. Ma anche Angela Merkel che spiega a una bambina siriana in lacrime che i suoi genitori non possono ricongiungersi a lei perché la Germania non può farsi carico di tutti (poi ci ripensò). Abbiamo considerato Mario Monti un robot e ora ci ritroviamo con Alessandro Di Battista che ci mostra le vacanze in sudamerica, i viaggi in BlaBlaCar con Di Maio, i sughi pronti di Salvini, il sono uno di voi, e i casi sempre particolari, pronti a soffrire con il singolo. Quand’è che c’è sembrato normale che la politica diventasse come una puntata di C’è Posta per te?
Oggi non ci viene chiesto “se” ma “con chi” empatizziamo. I liberal no border ci chiedono di empatizzare coi rifugiati, i conservatori con chi può perdere lavoro a causa dei migranti. Da che parte preferite stare? con il giovane teenager nero a cui la polizia ha sparato o col poliziotto che ha perso un collega perché ogni giorno mette a rischio la propria vita per difenderci? Con il nero che beneficia dell’affirmative action (in alcuni stati americani è quel vantaggio di cui godono neri e latini sul punteggio SAT nei test d’ammissione alle università) o con lo studente bianco che pur superando il punteggio non può entrare perché è bianco? Se pensate che la sinistra sia empatica e la destra invece sia fredda e calcolatrice vi sbagliate: non esiste il partito dell’empatia. Tutti fanno uso di storie personali. Dopo la pubblicazione del report sulla tortura venne chiesto a Dick Cheney di difendere le torture inflitte. Usò la storia di un cittadino americano al telefono con la figlia nella sua ultima chiamata prima di bruciare nel World Trade Center dell’11 settembre. Potete biasimarlo?
Di tutto questo ci parla Paul Bloom, psicologo di Yale, in Contro l’empatia, una difesa della razionalità (Liberilibri, 2019), tornando sul vecchio problema della relazione tra ragione e emozioni nella capacità di prendere decisioni morali. “Più cervello e meno cuore” è la sintesi di Bloom per cui l’empatia non solo è una pessima guida morale, perché getta le basi per giudizi insensati e può condurre a decisioni irrazionali e ingiuste, ma a conti fatti può renderci persino persone peggiori. Per capirci, la distinzione che fa Bloom è tra empatia cognitiva, cioè l’abilità sociale del capire lo stato d’animo degli altri, e questa gli va generalmente bene in alcuni campi; e l’empatia emotiva, il sentire gli altri, il mettersi nei loro panni, il credere di capire cosa prova il prossimo: è Barbara D’Urso che piange inquadrata. E a cui affidi lo scettro morale. Ciò contro cui Bloom si batte usando ricerche nella psicologia cognitiva, aneddoti storici e dati (mai la propria esperienza).
Verba Woland: ragione vs empatia di Luigi Bruschi, «Espresso.it», 17 marzo 2019
Come sapete ho una grande stima per il sociologo Luigi Manconi e ho spesso ripetuto l’invito a leggere i suoi libri. Il tema dei migranti, dei rom, dei detenuti è fonte di polemiche accese e insanabili divergenze. Spesso coloro che difendono i dritti di queste minoranze sono accusati di buonismo. Per questo motivo Manconi tiene a precisare:
«Io non voglio bene agli immigrati e nemmeno ai detenuti, e tanto meno voglio bene ai rom. […] Non provo pulsioni affettive, quello che avverto è, piuttosto, l’esigenza di darmi da fare come so e come posso per cercare di tutelare i diritti e le garanzie di ogni membro di quei gruppi e, quando necessario, della loro identità collettiva. E, in questo, il sentimento di simpatia per la loro condizione e la volontà di contribuire a superarla conta quanto un ragionamento schiettamente utilitaristico: voglio che gli immigrati, i detenuti e i rom abbiano tutti i diritti e le garanzie che spettano loro innanzitutto perché ciò può contribuire in maniera decisiva a che i miei figli possano godere, a loro volta, di tutti i diritti e le garanzie. E possano vivere in condizioni accettabili di sicurezza, in una società non lacerata da conflitti etnici e da vendette sociali».
Pertanto è la ragione non il cuore che deve guidare il nostro agire.
Un saggio dello psicologo Paul Bloom, Professor di Psicologia e Scienze cognitive nella Yale University, appena pubblicati in Italia ci aiuta a capire la questione. La sua tesi è chiarissima già nel titolo: Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri, 2019, pp. 312, € 18).
Bloom è chiarissimo: l’empatia, cioè la capacità di sentirci nei panni degli altri, è pericolosa e potenzialmente dannosa. Viviamo in un mondo in cui l’empatia viene considerata un grandissimo obiettivo (Barack Obama in suo discorso ha dichiarato: «Il più grande deficit della società contemporanea è proprio un deficit di empatia») ma Bloom è categorico: «Siamo frettolosi nel sottolineare il bene dell’empatia ma siamo ciechi di fronte ai suoi costi».
Dice ancora Bloom:
«L’empatia è sensibile al fatto che una persona sia piacevole o disgustosa da guardare». Se sei vecchio e brutto niente empatia, puoi tranquillamente crepare.
«L’empatia genera piacere per la sua capacità di farci sentire coinvolti nei confronti degli altri, genera benessere perché ci fa sentire più buoni. Ma è tutt’altro che una valida guida morale e decisionale. L’empatia ci porta spesso a emettere giudizi errati e a fare scelte politiche irrazionali e ingiuste».
Un libro da leggere e meditare. Bloom ci esorta a dare più spazio alla ragione in un mondo in cui la pancia è spesso al primo posto nel determinare il nostro comportamento. Naturalmente il monito è rivolto soprattutto ai politici che devono assumere decisioni di vitale importanza e non possono né debbono farlo per rispondere empaticamente al proprio elettorato.
Non sempre mettersi nei panni dell’altro è la risposta giusta, spesso anzi significa esattamente il contrario. Numerosi sono gli esempi tratti dalla vita quotidiana che Bloom porta a sostegno delle sue tesi.
Cito un caso solo immaginato: una bimba si ammala gravemente in seguito all’assunzione di un vaccino difettoso. Scatterebbe la nostra empatia e addirittura si potrebbe arrivare a sostenere di non usare più i vaccini. Morirebbero in questo caso tanti altri bambini dei quali non sapremo nulla. Ma, ricorda, Bloom, mentre il caso della bambina suscita empatia, la statistica non commuove nessuno.
«Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point»
diceva Pascal.
Forse è proprio per questo che dobbiamo essere prudenti.
Quel buonismo da criticare secondo Bloom di Riccardo De Benedetti, «Avvenire», 24 febbraio 2019, pag. 24
Paul Bloom, psicologo dell’età evolutiva nonché professore alla Yale University negli Stati Uniti nel libro Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri, pagine 312, euro 18) affronta di petto la questione “buonista”. Dal vicino di casa in affanno alla vecchietta che attraversa la strada non c’è gesto altruistico che non si consideri motivato dal sentimento dell’empatia. Sentimento morale per definizione, anzi tendenzialmente moralistico, vale a dire sottratto alla verifica dei suoi effetti concreti. Oggi l’empatia è riversata in dosi sproporzionate sul mondo nell’interezza dei suoi regni: animale, vegetale e minerale. Non si è forse insostenibilmente empatici nei confronti del cucciolo bastardino della porta accanto? Un po’ meno ai suoi guaiti quando la padroncina è a scuola e i suoi genitori al lavoro. Per non dire dell’empatia nei confronti di un paesaggio, di una prospettiva, di un quadro, di un fiore ecc. Bene, a poco a poco, leggendo quel libro ci si accorge che suscita lo stesso sentimento nei confronti del quale mette in guardia. Allora occorre prendere sul serio l’indicazione di fondo delle sue pagine: diffidare di tutto ciò che facilmente ci induce a slanci emotivi nei confronti di ciò che ci è esterno, come se la realtà fosse pienamente accessibile, e modificabile, grazie a questo impulso emozionale che ci fa credere di indossare, quando guardiamo l’altro, la sua stessa divisa: quella del povero, dell’emarginato, del bisognoso, dell’animale, della lontananza siderale degli astri che alluderebbero kantianamente al riflesso della luce della nostra interiore legge morale. Evitando così di mettersi nei panni di Paul Bloom rimanendo nei nostri si capisce che il suo libro è contro gli eccessi dell’empatia, più che non contro l’empatia in quanto tale, mosso dall’intenzione di ridare spazio e considerazione alla razionalità. Ma qui iniziano altri problemi. Contrapporre le emozioni che proviamo nel tentativo di metterci nei panni degli altri alla soluzione effettiva di ciò per cui crediamo siano bisognosi del nostro aiuto (sempre se riusciamo a darglielo efficacemente, e spesso non accade) sembra riduttivo. Il libro è pieno di esempi, alla maniera americana e con una spruzzata di neuroscienze, che la razionalità invocata è più efficace degli slanci emotivi che si esauriscono in conati altruistici inefficaci, ma è altrettanto vero che quella chiamata in causa da Paul Bloom è, in definitiva, la stessa o parte della stessa logica che i problemi li ha prodotti. In altre parole se l’empatia nella versione anglosassone dello slancio filantropico (con la pletora di associazioni benefiche non scevre da occultati calcoli di sostenibilità economica ben poco empatici) merita una certa diffidenza, è anche vero che nella logica di Bloom, manca quella variante (europea ?) che ha le sue radici nel Vangelo e in quella che santa Edith Stein chiamava Einfühlung. La dimensione fondante dell’empatia è radicata in quel percorso che, indicandoci l’esistenza di soggetti diversi da noi, anch’essi centri di un mondo che dovrebbe essere comune, ci permette di giungere alla dimensione del mondo oggettivo. Su quest’ultimo, una volta compreso, sarà poi possibile esercitare la razionalità che Bloom chiama in causa.
Così Paul Bloom sconfigge l’empatia buonista (a colpi di logica) di Camillo Langone, «il Giornale», 11 febbraio 2019, pag. 25
Per un misantropo qual sono è una delle parole più fastidiose: empatia. Chi la pronuncia mi risulta subito antipatico, per non dire odioso.
Cominciai a sentirla troppo spesso dalla bocca di Obama, quello che voleva salvare il mondo e ha dannato il Mediterraneo facendo fuori Gheddafi, poi nel 2013 si disse che Mario Monti ne scarseggiava e meno male perché fosse stato pure empatico ci avrebbe tassato perfino di più.
Perché l’empatia costa e a pagare il conto è spesso Pantalone, come ci spiega Paul Bloom, professore di psicologia a Yale, in Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri). «Siamo frettolosi nel sottolineare il bene dell’empatia ma siamo ciechi di fronte ai suoi costi». L’autore ricorda il caso di un cane malato di Ebola che a Dallas, Texas, suscitò una compassione tale che per curarlo vennero spesi soldi pubblici, 27mila dollari, una cifra assurda che avrebbe fatto gioco a tanti malati impossibilitati a pagarsi le medicine. Solo che il quattrozampe era diventato un fenomeno mediatico, mentre i duezampe erano sconosciuti e poco fotogenici.
«L’empatia è sensibile al fatto che una persona sia piacevole o disgustosa da guardare». Se sei vecchio e brutto niente empatia, puoi tranquillamente crepare. Siamo attirati in particolare dal dolore dei bambini, scrive Bloom, e quello che può sembrare un sentimento nobile può trasformarsi in sentimentalismo nocivo. Un esempio illuminante: la beneficenza occidentale alla Cambogia ha aumentato il numero degli orfani perché gli orfanotrofi, avidi di sovvenzioni, hanno spinto le famiglie povere ad abbandonare i loro piccini tanto carini. Che vivrebbero ancora con i loro genitori, se bianchi benestanti e scervellati avessero tenuto a bada la propria stramaledetta empatia.
«Dovremmo sforzarci di usare le nostre teste piuttosto che i nostri cuori». Vasto programma, anche perché dichiararsi contro l’empatia può essere pericoloso: gli empatisti sono ferocissimi. Quando Bloom ha osato scriverne sul New Yorker è stato travolto dal lettorato liberal: l’articolo è stato definito «una disgrazia intellettuale», «la cosa più stupida che abbia mai letto», e l’autore «un mostro morale». Purtroppo (sarebbe più divertente) lo psicologo di Yale un mostro non lo è affatto. Ci tiene anzi a mostrarsi «giusto, onesto, oggettivo» e afferma che «essere contro l’empatia non significa che dovremmo essere egoisti e immorali». Non sia mai. Buona parte del libro è dedicata alla difesa da simili attacchi, spesso, più che semplicemente irragionevoli, decisamente farneticanti: «Un professore di sociologia una volta mi scrisse che la mia enfasi sulla ragione esprimeva un punto di vista tipico di un maschio bianco occidentale».
Ma non c’è niente da fare, il nemico è soverchiante, siccome «noi non viviamo in un’età della ragione, viviamo in un’età dell’empatia».
Si può sapere di preciso che cos’è questa empatia, oltre che il modo di sentirsi buoni senza tener conto degli eventuali danni causati dal proprio atteggiamento? Nel libro viene definita come la «capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, di sentire il mondo attraverso gli occhi degli altri». Dunque, pur con ampie sovrapposizioni di significato, non è la vecchia simpatia, parola caduta in disuso giusto per darmi un altro dispiacere (non la trovavo simpaticissima ma nemmeno altrettanto intollerabile).
Semplificando all’estremo e andando oltre la comune etimologia, oggi empatia significa condividere le sofferenze degli altri, mentre la simpatia tende a essere una condivisione nell’ambito dei sentimenti positivi. La simpatia sembra più un inclinazione da boom economico, da tempi gioiosi e fiduciosi. A me fa tornare in mente Walter Chiari… Mentre è naturale che nella nostra triste epoca di crisi l’empatia abbia preso il sopravvento e la tv sia piena di storie lacrimevoli. Che io non guardo perché voglio continuare a essere anti-empatico, non emozionalmente ricattabile.
Non ho sensi di colpa di tipo sociale, chi invece ne avesse deve proprio leggere Contro l’empatia perché vi sono segnalate le ricerche scientifiche che, pur cercandole, non hanno trovato relazioni fra scarsa empatia e aggressività o crudeltà. Confermo: non sono empatico eppure non vado in giro a picchiare la gente.
L’empatia è pericolosa per la salute: il medico non deve empatizzare col paziente, deve curarlo, faccenda diversa e più complicata. E qui c’erano arrivati anche i nostri avi, gli autori del detto «Il medico fa pietoso fa la piaga cancrenosa». È pericolosa per l’educazione: i genitori non devono empatizzare troppo coi figli, non devono temere di infliggere loro piccoli dispiaceri (magari proibendo tatuaggi, o concerti) se questi possono evitare dispiaceri più grandi in futuro.
Esempi simili ricordano uno dei meccanismi negativi dell’empatia, il coinvolgimento emozionale immediato e l’insensibilità alle conseguenze nel lungo periodo. Se mandi aiuti alimentari in Africa, ti sentirai buono ma finirai col distruggere l’agricoltura locale. Se distribuisci reddito di cittadinanza, ti sentirai amico del popolo ma finirai con l’aumentare il debito sul groppone delle future, disgraziatissime generazioni. Empatia canaglia.
L’empatia spesso ci inganna: pensare agli altri fa sbagliare di Emanuele Ricucci, «Libero», 3 febbraio 2019, pag. 25
«Caro Dago, vivo con una pensione di invalidità da 292 euro al mese. In questi giorni di freddo intenso a casa ho 12 gradi perché non accendo il riscaldamento per risparmiare. Nessuno di quei tre “valorosi” parlamentari che sono saliti a bordo della Sea Watch si è mai offerto nemmeno di chiedere se quelli come me avessero bisogno di qualcosa». Dalla lettera di Santo italiano martire a Dagospia. Arrabbiatevi pure, stringete il pugno, nel leggere queste parole. Ma siate consapevoli che la vostra non è riconosciuta come rabbia di Stato. Un’ira sgretolante, soffocata e relativizzata dall’establishment culturale che le sue ultime carte, in una tesa partita con la morte, se le sta giocando anche nella democrazia emozionale, e nella sua musa: l’empatia. L’empatia è uno degli strumenti della democrazia degli editti e delle censure del politicamente corretto, precetto per aver riconosciuta la civiltà. E dunque, perché se grido alla disperazione della mia gente, stanco di aver perso sovranità e primato, sono un regretto fascista, lurido razzista a prescindere, e se canto, ballo, festeggio e mi faccio i selfie insieme ai migranti con un costoso smartphone appena sbarcato dalla Sea Watch, sono un gentiluomo degno di futuro? E dunque, eccoli, baldanzosi e ben vestiti emigranti, scendere dalla nave. L’Italia in cui ci vogliono sei mesi per fare una Tac, non poteva piangere di rabbia per più di una settimana, aspettandoli. Prona sulla sponda, ora misura minorenni di venticinque anni. Annebbiamento delle geometrie del reale, in favore della sua singhiozzante narrazione. Qual è, dunque, il dovere di fare il bene? L’empatia, come immedesimazione complessiva, è una strada verso il bene o solo un egoistico modo per stare in pace con noi stessi? L’empatia salverà la politica? Su queste domande si erge come un j’accuse controcorrente il saggio di Paul Bloom Contro l’empatia. Una difesa della razionalità (Liberilibri, 312 pgg., 18 euro), un perfetto «manuale per difendersi dalla democrazia delle emozioni», così come ben lo definisce Michele Silenzi, che cura l’edizione. Tra filosofia, politica, psicologia e cronaca, densa di casi, Bloom scomunica, con riflessioni di respiro internazionale, l’empatia come forma di governo, come inganno, i suoi eccessi. Leggendolo ci sentiremo, d’un colpo, ancor più affezionati al nostro pensiero critico, frutto della coltivazione culturale e lucida di noi stessi. Tra le pagine, un viaggio – super partes, a livello ideale – che ci porta all’assalto della democrazia emozionale, e dell’utilizzo selvaggio dell’empatia come Vangelo politico moderno, ben più alto, secondo il comune sentire, persino della cristiana Misericordia, limitata dalla correlazione con un Dio, ora emigrato dall’Occidente, altroché. Scrive Silenzi: «Con il venir meno di una spiritualità condivisa è scomparso anche il sostrato di riferimento su cui basare le nostre azioni e la ragione ci sembra non in grado di fornire spiegazioni del tutto esaustive, allora fondiamo le nostre azioni sul terreno melmoso dei buoni sentimenti». Non compassione, quindi, che prevede una compartecipazione e due identità coesistenti, ma empatia – scrive Bloom, che magari ha anche dei meriti nel fare il bene ma è «guida morale scadente. Getta le basi per giudizi insensati. Può condurre a decisioni politiche irrazionali e ingiuste» -, che rischia di essere sterile sottomissione. Pertanto, l’empatia ideologizzata determina il ritmo del cuore sociale: “restiamo umani”, il motto della nuova sinistra “santa” che, va ricordato, forgia ancora la cultura di massa e la sensibilità comune, pur essendo politicamente morente. La speculazione empatica, perciò, modifica la nostra necessità di identificazione, ponendo alla base della nostra quotidianità altre forme entro cui riconoscerci, perché più adatte per essere uomini civili, contro la barbarie di chi vuole anteporre la ragione sul dogma politico, il primato del proprio diritto di sovranità umana, politica e storica. Orchi contro angeli. Un nuovo bene e un nuovo male, immaginario, che agisce sul senso di colpa e di responsabilità. Forme identificative sempre più lontane da noi, per scardinare le maglie della sovranità come appartenenza a una comunità di destino, a una lingua, un rito, una Patria e dei confini entro cui riconoscersi, pur abbracciando il mondo. In altre parole, l’empatia sembra essere, e non solo nel caso dei migranti, un’efficace arma ideologica. Che ci annebbia la ragione. Siamo costantemente chiamati a scegliere se essere orchi o angeli, nell’arco di pochi minuti. Scrive Bloom: «Questo rigetto della ragione è particolarmente evidente nella sfera morale. I nostri giudizi su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sono determinati da sentimenti “di pancia” generati dall’empatia, e che deliberazione e razionalità sono largamente irrilevanti». Dalla pancia al cuore, quindi, va compiendosi la democrazia della sensibilità che non risparmia i costrutti ideologici che ci governano: il progressismo, col suo politicamente corretto, usa l’empatia come leva per snaturare e gestire gli uomini di questo tempo, il populismo clitorideo, solo se sfiorato, rigetta contrapposizione cieca come onda d’urto. Spetta, forse, al sovranismo riequilibrare quest’adolescenza sciocchina, ma solo se sarà capace di declinarsi in un vero e proprio movimento culturale e non solo in una reazione allergica. «Tutti i grandi traguardi sociali dell’uomo, il superamento dei pregiudizi nei confronti degli altri, la tolleranza, la comprensione di chi è diverso non sono stati raggiunti attraverso
un’empatia impossibile con chi è radicalmente distante da noi, ma grazie alla comprensione razionale, allo studio e alla compassione», ben chiude Silenzi. Dallo Stato nazionale alla democrazia emozionale, per crepare più buoni.