I diritti dell’uomo contro il popolo

Un pamphlet corrosivo che descrive in maniera spietata l’attuale situazione politico-sociale dell’occidente

Traduzione di Maria Giustozzi

Introduzione di Vittorio Robiati Bendaud

Pagine 132

ISBN 978-88-98094-46-2

Prima edizione 2019

Il prezzo originale era: 15,00 €.Il prezzo attuale è: 14,25 €.

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I diritti dell’uomo hanno permesso agli individui di sviluppare la loro libertà al riparo dagli arbitrî del potere. Ma cosa succede quando l’ipertrofia dei diritti perverte lo scopo per cui erano nati, diventando una gabbia per la libertà stessa?
Secondo Jean-Louis Harouel, i diritti dell’uomo si sono trasformati in una religione secolare suicida per gli occidentali, alla ricerca di un orizzonte pseudo-metafisico in cui credere. L’autore inquadra tale religione secolare all’interno di un percorso storico-filosofico iniziato con la gnosi e il marcionismo, cresciuto con le dottrine millenariste e impostosi con quelle socialiste.
Dove un’identità va in frantumi, in questo caso quella occidentale che si autodistrugge attraverso l’odio di sé, un’altra identità forte e fiera, che Harouel indica nell’Islam radicale, tenta di affermarsi. Egli analizza il fenomeno partendo dalla Francia per allargare la pro­spettiva al resto d’Europa e del mondo occidentale.

La Sagra dei Sovranismi. I diritti dell’uomo contro il popolo di Giuseppe Maggiore, «Amedit», n. 40, autunno 2019, pp. 44.47

 

Quando certi diritti si ritorcono contro l’uomo che avrebbero dovuto tutelare è tempo di rimetterli in discussione. L’Occidente liberal-democratico, con le sue leggi, le sue costituzioni, i suoi diritti fondamentali dell’uomo sembra essersi scavato la fossa con le proprie mani, creando armi a doppio taglio e mostrandosi debole proprio in ciò che avrebbe dovuto costituire la sua forza e la sua grandezza. Come un serpente che si morde la coda oggi è caduto vittima dei suoi stessi valori, e di ideali che, troppo spesso, si scontrano con la cruda realtà. L’idea universalista di una grande comunità allargata, senza più distinzioni di etnia, religione e cultura sembrava tradurre l’ideale cristiano di un “regno di Dio sulla terra” troppo a lungo atteso. Un’impresa in cui le moderne democrazie hanno voluto cimentarsi, proprio dove lo stesso Dio, rimandando a data da destinarsi il proprio Eden, aveva fallito. Alla luce dei conflitti e dei malumori generati da questa grande ammucchiata, sembrerebbe davvero il caso di affermare: “Non osi unire l’uomo ciò che Dio ha diviso”.

Le convivenze forzate non funzionano, prima o poi implodono, collassano su se stesse. Per realizzare l’unità dei popoli, per abbattere certi confini non solo geografici, ma culturali e ideologici, con ogni evidenza non sono sufficienti le leggi, poiché queste da sole non determinano in automatico una trasformazione nella coscienza collettiva. Non si può ad esempio stabilire per decreto la pace quando non c’è accordo sui termini in cui questa debba realizzarsi; se c’è, come spesso accade, chi vi pone delle condizioni che vanno a proprio esclusivo vantaggio, ci sarà chi dall’altra parte percepirà questa sperequazione come una sconfitta, uno smacco alla propria integrità e alle proprie legittime rivendicazioni. Quella pace e quelle convivenze raggiunte per decreto imposto dall’alto resteranno pur sempre una forzatura, un rospo difficile da digerire.

Allo stato attuale l’unica forma di unione tra i popoli è quella realizzata dal Capitalismo attraverso quei beni di consumo messi alla portata di tutti: anche i buddisti bevono Coca-Cola e digitano sullo smart-phone di ultima generazione, esattamente come fanno induisti, islamici e cristiani (ed è lecito che ora vogliano farlo anche quei popoli provenienti dai paesi cosiddetti sottosviluppati troppo a lungo lasciati in disparte). Nessun  sistema di governo o di religione è stato capace di raggiungere un simile risultato. Ma al di fuori di questa allettante mensa perennemente apparecchiata, colma di cibi, di stracci e di tecnologie presto superate, non c’è alcun incontro di culture, nessun’altra forma di relazione tra i popoli che non sfoci in un modo o nell’altro nello sfruttamento, nella sopraffazione, nella volontà di imporre le proprie norme e i propri valori. Restiamo in definitiva dei tribali, divisi in cielo come in terra, tutti in lotta tra loro per accaparrarsi la fetta di torta più bella, convinti come siamo di stare dalla parte del giusto e di essere detentori di una cultura superiore a quella altrui.

L’attuale clima di ostilità, diffidenza e paura che sta attraversando il mondo occidentale è segno di un malessere antico e profondo; un malessere che tanto i governi quanto le religioni non sono stati in grado di affrontare, tantomeno di curare. L’ondata di sovranismi agita da movimenti di estrema destra che sta scuotendo tutto l’Occidente non è semplicemente un virulento e chiassoso populismo che si rivolge alla “pancia”, a quel ceto popolare che presumiamo rozzo e incolto, ma è sintomo di questo antico male che ci portiamo dentro, di troppi conti ancora in sospeso col nostro passato, di un presente liquido, paludoso, sganciato dalla storia e privo di grandi ambizioni collettive che puntino in alto. Sintomo dal lessico sgangherato, certo, ma che proprio per questo esprime al meglio tutto il disordine e le contraddizioni di un percorso di civiltà non ancora giunto a maturazione; sintomo altresì di una democrazia che ha troppi nervi lasciati scoperti e che non ha sviluppato sufficienti anticorpi per proteggersi da se stessa, da quel suo impianto per molti versi troppo liberale e idealista.

Ecco allora che c’è un populismo trasversale, capace di intercettare questi malumori e di incamerare non solo il consenso dell’operaio e della casalinga, ma anche quello dell’intellettuale e di certe élite, con tutti i conseguenti intenti manipolatori, le riletture della storia, lo scadere in un linguaggio viepiù becero e intriso di amenità, la maggiore o minore onestà intellettuale con cui si cerca di portare acqua al proprio mulino. Onestà intellettuale che spesso manca dall’una e dall’altra parte, inabissandosi in posizioni preconcette e strumentali. Lo stesso “politicamente corretto” tanto invocato da alcune compagini istituzionali tendenzialmente di sinistra può edulcorare i termini del confronto tra opposte visioni, può raffinare il linguaggio della politica e del pubblico dibattito, certo, ma può anche fungere da mero paraocchi e tradursi in un rifiuto della cruda realtà. Manteniamo in questa sede quella convenzionale bipartizione tra destra e sinistra che tanto piace alla dialettica populista dell’una e dell’altra parte, sebbene entrambe annacquate e prive ormai di vera ideologia. Diamo altresì una certa ragion d’essere al populismo stesso, considerandolo, al di là delle sue degradazioni, uno strumento potenzialmente capace di ridestare i popoli e i loro governanti dall’antico torpore. Se infatti non vogliamo che quella che stiamo attraversando sia solo un’epoca di disordine strutturale, istituzionale e sociale dobbiamo fare in modo di trasformare anche questo rabbioso populismo in un’opportunità di confronto costruttivo e di crescita, cercando in questo modo di trarne una qualche utilità.

Ben vengano allora certi libri che si inseriscono a pieno titolo nell’odierno dibattito internazionale offrendo degli spunti di riflessione. Uno tra questi è il pamphlet (edito da Liberilibri, nella traduzione di Maria Giustozzi) I diritti dell’uomo contro il popolo di Jean-Louis Harouel, professore emerito di Storia del diritto all’Université Panthéon-Assas di Parigi. È interessante che Harouel scriva proprio da quel paese, la Francia, che per primo e più di tutti ha contribuito alla promozione dei diritti dell’uomo, da quel paese cioè il cui motto “Liberté, Égalité, Fraternité” ha assunto valenza universale tanto da ispirare gran parte delle Costituzioni dei vari paesi e da diventare caposaldo della moderna cultura occidentale. Con il suo scritto – che Vittorio Robiati Bendaud definisce nell’introduzione “un’opera polemica, graffiante, lucidamente divisiva” –  Harouel osa rimettere in discussione proprio quegli ideali illuministici nati dalla Rivoluzione francese, a suo avviso divenuti oggi pericolosi per la stessa Francia e per tutto l’Occidente. Quei diritti nati per difendere il popolo dall’oppressione e dall’invadenza del potere – ci avverte – sono oggi diventati una pericolosa arma abilmente utilizzata da coloro che esigono accoglienza e cittadinanza, da coloro che esigono rispetto verso il loro bagaglio di usi, costumi, norme e credenze religiose, ma che al contempo non mostrano di portare uguale rispetto per le tradizioni civili, culturali e religiose del paese ospitante. Il riferimento è rivolto soprattutto agli immigrati di cultura islamica, il cui flusso migratorio verso l’Occidente negli ultimi decenni è in costante ascesa. La Francia è difatti il paese dell’Europea occidentale che conta il maggior numero di musulmani sul proprio territorio (con cinque milioni di residenti, pari a un quarto di quelli presenti nell’Unione Europea), e dove l’Islam è la religione più diffusa dopo il cattolicesimo.

Harouel vede in atto un processo di islamizzazione della Francia e dell’Europa in generale, favorito proprio dalle nostre leggi liberal-democratiche, e per dimostrarlo cita all’inizio del suo scritto le parole pronunciate nel 2002 a Roma dallo sceicco Yusuf al-Qaradawi: “Con le vostre leggi democratiche, noi vi colonizzeremo. Con le nostre leggi coraniche noi vi domineremo.” Come ben sappiamo l’Islam non è soltanto una religione, ma uno Stato, un tutt’uno di fede e legge. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 le sue rivendicazioni identitarie in terra straniera si sono fatte sempre più pressanti e manifeste: il ritorno in voga dei veli islamici indossati dalle donne, il proliferare di moschee, la pretesa di far rimuovere i simboli cristiani dai luoghi pubblici, la richiesta di poter usufruire delle piscine pubbliche in orari riservati esclusivamente alle donne islamiche, il rifiuto di queste ultime a farsi visitare da medici di sesso maschile… sono tutte azioni che non chiedono il semplice rispetto dei propri usi e costumi, ma che esprimono la volontà di acquisire maggiore visibilità e legittimità nello scenario pubblico, cui si accompagna un palese e netto rifiuto verso la civiltà occidentale. Ed è proprio attraverso l’uso strumentale e opportunistico delle nostre leggi antidiscriminatorie che tutto ciò avviene.

«Nei Paesi europei – scrive Harouel – le sole rivendicazioni identitarie che non rischiano di essere accusate di razzismo o di xenofobia sono quelle che provengono o dagli stranieri o da persone in possesso della cittadinanza ma la cui origine è straniera.» Leggi e diritti che sembrano quindi valere solo per una parte, a detrimento proprio dei popoli occidentali che dovrebbero in primo luogo esserne tutelati avendo concorso alla loro formazione. Ecco perché Harouel ritiene che siano proprio i diritti dell’uomo ad aiutare i musulmani nella loro opera colonizzatrice dell’Europa, mettendoci in guardia da ciò che vorrebbe esser fatto passare come il semplice rispetto della pluralità culturale e religiosa: «Quando la classe politica si preoccupa dell’Islam, lo fa soltanto dall’angolazione della libertà religiosa e della non-discriminazione. I musulmani non sono che secondariamente i fedeli di una religione, essi sono un gruppo identitario di origine straniera antagonista della Francia, che si considera parte di una civiltà totale in cui politica, diritto, religione e costumi formano un blocco inscindibile, che sta conquistando pezzi di territorio.»

Harouel punta per questo il dito contro quella religione secolare dell’umanità che ha trasformato i diritti dell’uomo da mezzo di liberazione contro il potere a mezzo di oppressione contro il popolo. Una religione a suo avviso imbastita dalle correnti socialiste e più in generale dal pensiero di sinistra, che prendendo le mosse dallo gnosticismo e dal millenarismo si traduce in una falsificazione del messaggio evangelico e in un nuovo totalitarismo ideologico. Attraverso questa forma di religiosità civile l’Occidente, reo di un benessere raggiunto con lo sfruttamento e la sopraffazione degli altri popoli, viene costantemente criminalizzato dall’interno e costretto a una perenne espiazione, esautorandosi per mezzo delle proprie leggi, degli organismi sovranazionali e di magistrati trasformatisi in “preti giudiziari”. Un Occidente quindi vulnerabile, autolesionista, tanto clemente e accondiscendente verso l’estraneo che sfonda la sua porta, quanto sordo e ostile verso i membri della propria casa. Non ha tutti i torti Harouel. Ciò che scrive scaturisce da un’evidente paura, non del tutto immotivata; la sua è un’opera reazionaria, ma pervasa al tempo stesso da un profondo senso di impotenza e di frustrazione.

Harouel parla da fiero cittadino di un paese dalla forte tradizione nazionalista, che vede in questa inarrestabile e incondizionata immigrazione una minaccia all’integrità della propria identità culturale. Il suo è un sentimento molto diffuso oggigiorno; un sentimento che diventa rabbia perché troppo spesso colpevolmente ignorato da chi dovrebbe farsene carico. Il suo discorso è in buona parte condivisibile, muovendo da buone premesse e da legittime preoccupazioni; notevole è anche l’excursus storico che traccia per spiegare la genesi e l’evoluzione di quella  religione secolare dell’umanità, che definisce un’arma mortale per gli europei.

Tuttavia non si può non rilevare un vizio di fondo, nella parzialità con cui riduce il tutto a una spietata critica alla sinistra, come quando cita le vittime del comunismo senza fare altrettanto con quelle del nazismo o del fascismo. Altrettanto si può dire quando definisce il Cristianesimo una religione che non ha mai preteso di intromettersi nelle leggi dello Stato, in cui la separazione tra politica e religione sarebbe più netta, rispetto all’Islam, in cui entrambe le funzioni invece coincidono. Dimentica o omette volutamente, in questo caso, le tante ingerenze ecclesiastiche nelle questioni che attengono la società civile e i frequenti attacchi alla laicità dello Stato. Ma se la sua volesse in tal senso essere una difesa della laicità e della sovranità dello Stato, e quindi di una posizione neutrale rispetto alle religioni, non si spiega allora perché rivendica al contempo il diritto a esporre il crocifisso in ogni luogo pubblico, addirittura auspicando la presenza della croce nella bandiera dell’Unione Europea per sottolinearne le radici cristiane.

Limitare la storia della civiltà occidentale ai soli duemila anni di Cristianesimo è alquanto riduttivo; vedere nel Cristianesimo ciò che avrebbe favorito il progresso civile dell’Occidente suona altrettanto riduttivo e in larga misura falso, perché affermando ciò non solo non si tiene conto dell’enorme contributo apportato dalla nutrita schiera di liberi pensatori laici quali filosofi, scienziati, artisti, letterati e politici lungimiranti, ma si tralascia anche di ricordare il secolare ostruzionismo esercitato dalla Chiesa nei confronti della scienza e di quanti per mezzo dell’intelletto hanno cercato di riscattare l’uomo dalla semplice condizione di pedina nelle mani di Dio. Da chi abbiamo ereditato la scrittura e la matematica? Dove li mettiamo i filosofi greci e latini? Quale sarebbe oggi il posto e il ruolo delle donne occidentali senza la rivoluzione dei movimenti femministi? Quale ruolo hanno avuto l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo nella possibilità che oggi Harouel ha di poter scrivere ed esprimere un proprio pensiero? Ma andiamo avanti.

Gettando lo sguardo sui testi sacri del Corano, Harouel parla di una violenza insita nella religione islamica, di una sua ineludibile natura repressiva e terroristica che non ammette infedeli. Giusta osservazione. Ma potrebbe fare altrettanto leggendo i testi biblici del Vecchio Testamento, dove l’immagine del Dio giudaico non si discosta molto da quella di Allah in quanto a ira e gelosia. La storia mostra tanti fondamentalismi religiosi, in cui il Cristianesimo con i suoi milioni di vittime affastellati nel corso di questi duemila anni, tra pagani, ebrei, musulmani, donne accusate di stregoneria, omosessuali e liberi pensatori non fa certo eccezione. Il cattolicesimo moderno ha raffinato le sue tattiche espansionistiche e autoritarie, ma resta pur sempre un potere che in modo più o meno subdolo detta legge sulle coscienze e sulle politiche degli stati. Ma questo naturalmente Harouel omette di dirlo, definendo la politica di oggi “un dipartimento della morale” solo quando obbedisce al principio di non-discriminazione stabilito dalla religione secolare dei diritti dell’uomo. Salvo poi proporci una sua morale dal cui filtro non passa praticamente quasi nessuno. In linea col suo pensiero di destra, Harouel attacca infatti questi diritti perché rei di un’idea uniformante divenuta dogma, in virtù della quale, scrive: «(…) l’altro è in grado di esigere di essere riconosciuto come il medesimo di sé, e di avere la sua tesi accolta dai tribunali. Non ci sono più né ebrei né neri, né stranieri, né musulmani, né donne, né omosessuali, né disabili, né nessun altra minoranza visibile o no. Sono tutti “lo stesso” quando esigono di esserlo.» Questi soggetti, a suo avviso, «Nel nome della perfetta uguaglianza, sono dei privilegiati.» nei confronti dei quali non è possibile manifestare alcuna critica o disapprovazione senza essere tacciati con una parola che termini per “fobia”.

Non dovrebbe essere così? I principi del rispetto dell’altro, del suo pieno riconoscimento, della sua uguaglianza, del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso, non sono forse alla base del messaggio cristiano, di quel Cristianesimo che lui ritiene sia fondamento della moderna democrazia? Ma Harouel mostra di voler prendere dal Cristianesimo solo ciò che crede possa collimare col suo discorso. E difatti preferisce i testi veterotestamentari intrisi di xenofobia e di istanze integraliste a quelli del Nuovo Testamento, lagnandosi al tempo stesso dello scollamento tra la società contemporanea e le prescrizioni del Decalogo. Ancora una volta qui cade in contraddizione con le sue stesse asserzioni, dal momento che tra quei dieci comandamenti cui fa riferimento ve n’è uno che recita “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Quando sostiene che «L’inferiorità della donna proviene dalla sharìa, che ne fa un’eterna minore, passando dalla tutela della sua famiglia a quella di suo marito» dimentica forse il parallelismo con la nostra cultura patriarcale e maschilista, non ancora del tutto superata? Quando lamenta che «Il semplice fatto di avere l’imprudenza di manifestare con un segno esteriore convinzioni non approvate dal legislatore è penalmente punibile» intende forse legittimare la riproposizione di svastiche e di saluti romani da parte dei movimenti neofascisti nelle pubbliche piazze?

La critica alla civiltà liberale, forse divenuta un po’ troppo smidollata, incapace com’è di difendersi dagli attacchi dei vari fondamentalismi, va bene fin quando non le si voglia opporre un fondamentalismo di segno opposto che ne voglia scardinare gli ideali e azzerare tutte quelle conquiste civili che hanno reso grande l’Occidente. Tanto il laicismo quanto il relativismo non costituiscono di per sé un male, e non sono affatto un “vuoto pneumatico” privo di valori; garantiscono bensì uno spazio neutrale rispetto alla molteplicità dei valori, nei confronti dei quali respingono ogni dogmatismo e ogni pretesa di verità esclusive. Il lungo e accidentato processo di secolarizzazione che ha condotto le società umane ad emanciparsi dall’influsso delle religioni non può che essere visto positivamente, dal momento che questa secolarizzazione non ha affatto debellato la dimensione del sacro né ha impedito la libertà di culto a nessuna religione, ma ha semplicemente ridimensionato il loro ruolo e la loro ingerenza nella sfera pubblica. Questi fattori, così tanto demonizzati da ecclesiastici e loro affini, lungi dall’essere annichilenti o degenerativi, rappresentano proprio i punti forti delle moderne democrazie, poiché è proprio sulla base di questi principi che possiamo esercitare le nostre libertà individuali di pensiero, di azione, di scelte, di credo politico e religioso. Altrimenti dobbiamo rinunciare alla nostra democrazia e optare per uno Stato Etico o una dittatura. È questo ciò che vorrebbe Harouel? Se così fosse, nello scontro di civiltà già paventato a suo tempo da Samuel Huntington, l’Occidente ne uscirebbe definitivamente sconfitto. Allora tutto il discorso che Harouel fa in difesa dell’Occidente deflagrerebbe, decretando, attraverso lo smantellamento dei suoi valori, dei suoi ideali e delle sue libertà, proprio la sconfitta della nostra civiltà. Si darebbe in definitiva ragione a un Islam oscurantista, antimoderno e antiliberale.

Che ci sia un problema legato alla gestione dell’immigrazione che riguarda tutti i paesi occidentali è fuor di dubbio. Che quest’immigrazione comporti, insieme agli inevitabilmente conflitti, incomprensioni, ostilità e diffidenze, anche problematiche legate agli alloggi, all’occupazione e alle politiche del welfare, anche questo è fuor di dubbio. Né si può negare che sussista, in molti tra questi immigrati, un atteggiamento ambivalente, tra il netto rifiuto (per non dire  disprezzo) verso la civiltà occidentale, e le pretese di accoglienza e riconoscimento d’ogni diritto e tutela. Tutto ciò ammesso, la soluzione non può certo essere quella di trincerarsi in un sovranismo nazionale che si limiti a preservare i caratteri identitari di una nazione, quali cultura, lingua, religione, peraltro ormai perlopiù materia di folclore piuttosto che di vera identificazione.

Come scrive la filosofa Marta Nussbaum in Coltivare l’umanità (Carocci, 2012): «Formare il “cittadino del mondo” è in netta contrapposizione con lo spirito che anima le politiche dell’identità, le quali affermano che le fedeltà primarie devono venire riservate al gruppo di appartenenza, sia esso religioso, etnico oppure fondato su differenze di genere o di orientamento sessuale.» Si tratta di politiche il cui fondamento ideologico, implicitamente discriminatorio e antidemocratico, possono solo andare a infierire su un tessuto sociale già di per sé fragile, creando nuove lacerazioni e indebolendo ulteriormente il sentimento dell’Umanità. «In qualsiasi società – scrive ancora Marta Nussbaum – appare radicale sostenere l’eguale dignità di ogni essere umano e l’uomo cerca in tutti i modi di non ammettere la validità di questo ideale, anche se ciò implica agire in contraddizione con i principi professati.» È  proprio in questa evidente contraddizione che Harouel cade, passo dopo passo di ogni sua affermazione. Perciò suggeriamo a lui, e a quanti sono in linea col suo pensiero, anzitutto di dare ordine e logica alle proprie idee, quindi di valutare anche gli effetti pericolosi che queste possono avere sul piano sociale.

L’insistere sul terreno delle narrazioni identitarie alimenta l’idea di uno scontro di civiltà in atto, nascondendo che la vera guerra che si sta combattendo è quella, molto meno ideologica e valoriale, dell’economia mondiale. È sul piano delle politiche economiche che gli stati dovranno tornare a rivendicare una propria sovranità. I concetti di nazione e di popolo non possono che fondarsi su un comune terreno di diritti e doveri ugualmente riconosciuti a tutti i soggetti che ne fanno parte. Le leggi devono servire allo scopo di garantire che l’esercizio di questi diritti e doveri da parte di ogni cittadino, nativo e non, avvenga in modo coerente e responsabile. Restringere il campo dei diritti, selezionando quelli che più rispondono a un interesse di parte, a una nostra personale etica o morale, significherebbe dar luogo a nuovi e inesauribili conflitti. Non c’è nessun valore al di sopra della libertà individuale, sebbene anche questa richieda rigore e disciplina. Quando una certa idea di sovranismo intende retrocedere sul piano dei diritti e delle libertà; quando quest’idea di sovranismo intende recuperare uno spirito identitario ormai inesistente al di fuori della cultura capitalistica, e si ostina a voler essere una perenne fabbrica di nemici, invasori e complottisti contro cui difendersi, potrà sì cavalcare l’onda del populismo, ma ad attenderlo all’orizzonte non ci saranno altro che le panche di una sagra di paese.

 

I diritti dell’uomo contro il popolo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange, «L’Italia e il mondo», 3 luglio 2019

Jean-Louis Harouel I diritti dell’uomo contro il popolo Liberilibri, Macerata 2019, pp. 104, € 15,00

 

Almeno fino alla prima metà del secolo scorso era abituale, negli scrittori di politica e diritto pubblico, rilevare che la prima “divisione dei poteri” nello Stato moderno non è quella, più nota, di Montesquieu, ma l’altra tra potere temporale e potere religioso.

Lo si può leggere (tra i tanti) in M. Weber, G. Mosca, M. Hauriou. E si accompagna alla notazione che tale distinzione è tipica della civiltà cristiana. Max Weber notava che vi sono solo due religiosi al mondo che separano nettamente potere temporale e non: una è il cristianesimo. Mosca sostiene che il primo elemento per ottenere la difesa giuridica dei diritti individuali è “la separazione del potere laico dall’ecclesiastico” tipica del cristianesimo.

In seguito queste considerazioni hanno perso d’importanza: pareva ovvio che una costituzione dello Stato “sociale” separasse tali poteri, così come assicurasse diritti di libertà, divisione dei poteri, uguaglianza e così via. Il fatto che il tutto sia dovuto al cristianesimo e che nella storia sia un’eccezione (oltretutto, anche nella civiltà cristiana, spesso controversa) e non la regola è stato dimenticato.

È quindi assai interessante che questo denso saggio inizi ricordando tale differenza tra Europa (cioè cristianesimo) occidentale ed Islam, che comporta la difficoltà estrema per i musulmani di accettare norme ed istituzioni che su quella separazione si fondano. Ancor più il lettore ricorderà la discussione sulle “radici giudaico-cristiane” dell’Europa, che sono un fatto storico e che gran parte delle élite europee voleva togliere dal testo della “Costituzione” europea: col risultato di far fallire il progetto, d’altronde, in quei termini, di utilità più che dubbia.

Scrive Harouel che “È un errore considerare l’Islam soltanto come una religione e definire la sua collocazione nelle società occidentali unicamente sotto il profilo della libertà religiosa, perché l’Islam ha una fortissima dimensione politica … L’Islam è insieme religione e regime politico, e addirittura la parola dîn non significa religione ma legge”.

Ad integrare i musulmani residenti in Europa, serve pertanto poco “la religione secolare dei diritti dell’uomo” come sostiene l’autore. Questa ha anch’essa delle radici: ma nell’eresie cristiane. In particolare nella gnosi (Marcione)  e nel millenarismo (Gioacchino Da Fiore). È noto che da tempo sono state affermate le influenze gnostiche e millenariste sul marxismo-leninismo. Dopo il collasso del comunismo, si sono trasferite nella “religione dei diritti dell’uomo”. Anche perché, hanno trovato dopo la fine dei partiti comunisti un ricco vivaio di profeti disoccupati, ansiosi di trovare, paretianamente, nuove derivazioni per sostituire quelle sconfitte dalla storia e, così, tirare a campare. Capisaldi della nuova religione sono la fede nel progresso e il memismo cioè la negazione delle differenze tra uomini e l’affermazione dell’interscambiabilità di tutti gli uomini e quindi dei popoli.

Con ciò è stato cambiato il concetto e il modello del liberalismo democratico (appropriandosi del termine) “sotto l’effetto della religione dei diritti dell’uomo, si è adottata una concezione sensibilmente diversa della democrazia, lontanissima dal modello classico della democrazia liberale: sovranità del popolo e difesa dei cittadini contro gli eccessi del potere grazie alle libertà pubbliche. In questa nuova versione, la democrazia è diventata fondamentalmente culto dell’universale e ossessione dell’apertura all’altro con relativa svalutazione della sovranità del popolo. Se si decide che è questa la democrazia vuol dire che la classica democrazia liberale non era democrazia. Si è stabilito che i valori della religione dei diritti dell’uomo fossero i veri valori democratici. Essendo questi nuovi valori esclusivamente universalisti, nessun popolo europeo può sentirsi legittimo poiché solo l’umanità lo è”. E la religione dei diritti dell’uomo ha fatto “saltare” il confine tra diritto e morale, cioè tra coazione e coscienza (persuasione).

Così l’amore verso il prossimo, da precetto evangelico e dovere morale si è trasformato in norma giuridica e in decisioni giudiziarie. La morale dell’umanitarismo è imposta con i carabinieri “Questo strano fenomeno è stato perfettamente analizzato dal decano Carbonnier. Come lui osserva, esiste, sin dall’inizio, nei diritti dell’uomo, l’idea di una fraternità umana e dunque di un dovere di amore verso l’altro. Ma questa dimensione dei diritti dell’uomo è restata a lungo soltanto nel registro della morale individuale”; ma “Tutto è cambiato nella seconda metà del XX secolo. Dopo l’entrata in vigore della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo del 1950, si è progressivamente imposto un vero culto dei diritti dell’uomo … Sono passati in secondo piano i diritti individuali di base, i diritti-libertà riconosciuti agli individui per garantirli contro possibili abusi da parte dei loro governanti: libertà di movimento, sicurezza, inviolabilità del domicilio e della corrispondenza, libertà di pensiero e di opinione, libertà d’espressione. Il centro di gravità della morale dei diritti dell’uomo si è spostato verso il principio di non-discriminazione, che è diventato il principio fondante dei diritti dell’uomo”. Lo Stato diventa un dipartimento della morale umanitaria ma ciò comporta “un vero tradimento del popolo da parte dello Stato. Perché se ogni Stato ha dei doveri verso l’umanità esso ha dei doveri prioritari verso il Paese di cui costituisce il volto costituzionale. Esso deve vegliare per prima cosa sui suoi interessi, la sua prosperità, la sua prospettiva futura. Ma, in Europa occidentale e in Francia meno che altrove, lo Stato non ha quasi nessuna preoccupazione per gli interessi concreti del popolo. Poco importa il suo avvenire”. D’altra parte “amare il proprio nemico, porgere l’altra guancia: sono dei percorsi di santificazione individuale, non delle regole di diritto che si possono imporre a tutta una popolazione. Il millenarismo dell’amore per l’altro spirito fino al disprezzo di sé causa la morte delle società che vi si abbandonano”. Per continuare ad esistere “il popolo di questo Paese deve rompere con la religione suicidaria dei diritti dell’uomo. Il bisogno vitale di questo popolo non è quello di essere protetto contro i suoi governanti dai diritti dell’uomo, ma di essere protetto dai suoi governanti contro i diritti dell’uomo”.

Nel complesso un saggio che condensa in poche ma dense pagine errori, ingenuità, derivazioni di un’ideologia quanto mai pericolosa e la quale ignora gran parte dei capisaldi del pensiero politico e giuridico europeo. Solo per questo un ottimo motivo per leggerlo e tenerlo a mente.

 

Libri. “I diritti dell’uomo contro il popolo” di Harouel: alle radici di una nuova dittatura di Giovanni Sessa, «Barbadillo», 8 agosto 2019

 

Protagonista indiscusso della società contemporanea, sotto il profilo esistenziale, è un nuovo soggetto antropologico che alcuni studiosi, alla luce del suo esclusivo rapporto con la merce, hanno definito il «consumatore consumato», ed altri, soffermandosi sulla sua struttura psichica, «narciso post-moderno». E’ l’abitatore del mondo liquido, il cui tempo è deprivato di profondità, e la cui vita si situa in un presente invalicabile, dominato da due nuovi idoli: 1) la merce; 2) la religione secolare dei diritti dell’uomo. Della cosa da tempo, in particolare in Francia, si occupano, nelle loro lucide analisi, Alain de Benoist e Marcel Gauchet, solo per fare qualche nome: autori decisamente schierati contro l’intellettualmente corretto. La novità, che va segnalata, è che anche accademici liberali hanno preso coscienza di tale realtà. Lo si evince, con evidenza, dall’ultima fatica di Jean-Louis Harouel, I diritti dell’uomo contro il popolo, arricchito dalla introduzione di Vittorio Robiati Bendaud, da poco edito da Liberilibri editore (per ordini: ama@liberilibri.it, 0733/231989, pp. 105, euro 15,00).
Nell’incipit del volume, l’insigne teorico del diritto, muove dalla descrizione delle drammatiche condizioni prodotte dall’immigrazione senza controllo, il cui pedaggio è stato esclusivamente pagato dai ceti popolari autoctoni, di popolazioni di fede islamica in Francia e, più in generale, in Europa. Sono attualmente cinque milioni i residenti mussulmani nel paese transalpino, uno Stato nello Stato che, ogni giorno, con i propri costumi, con il proprio modo di vivere, perfino attraverso il proprio abbigliamento, si contrappone al modus vivendi del paese che li accoglie. Pur non condividendo in toto i giudizi sull’Islam dell’autore, in quanto riteniamo che, tanto i migranti quanto le popolazioni accoglienti siano, in qualche modo, le vittime di chi dirige il processo di sradicamento universale in atto, vale a dire i rappresentanti della governance e della Forma Capitale contemporanea, certamente gli va riconosciuto coraggio intellettuale. Egli non solo mette in discussione, in termini assiologici, il concetto di accoglienza, parola magica che giustifica per il buon democratico qualsiasi provvedimento, anche se palesemente contrario al buon senso, ma va anche alla ricerca della sua origine storico-filosofica, al fine di mostrarne l’inanità.
La rinviene, essendo la prassi accogliente momento della religione secolare dei diritti dell’uomo, nella filosofia della storia e, comunque, all’interno di quell’atteggiamento «futuristico», per usare un’espressione propria di Karl Löwith, inaugurato, nel mondo antico, dallo gnosticismo e dal millenarismo. La gnosi, un’insieme di dottrine religiose esoteriche fortemente svalutative della dimensione materiale e terrena, aveva al proprio centro il tema dell’Uomo-Dio: «Creatore sventurato della materia […] la divinità inferiore […] vi ha racchiuso dei frammenti della divinità suprema» (p. 28). Le anime, per questo, ambiscono al cielo per essere riassorbite in Dio. Lo gnostico è Uomo-Dio. Mentre l’autore tende a distinguere gnosi e cristianesimo in modo netto, noi, con Löwith, riteniamo che aspetti gnostici fossero presenti nel cristianesimo originario. Il primo effetto della diffusione della buona novella fu, infatti, la desacralizzazione del cosmo. L’idea millenarista, invece, era centrata sull’annuncio che Gesù sarebbe tornato sulla terra per instaurarvi un regno di felicità assoluta.
Millenarismo e Gnosi hanno un tratto in comune, vale a dire: «il rifiuto di credere che il male possa risiedere nell’uomo» (p. 30). Le due tendenze teoriche trovarono sintesi compiuta, ricorda Harouel, nell’opera di Gioacchino da Fiore. L’abate sviluppò una forma di millenarismo nel quale il continuo progresso umano segnava il senso della storia: «Dio avrebbe deciso che ci sarebbe stata in questo misero mondo un’era di felicità assoluta» (p. 32), l’età dello Spirito Santo, in cui gli uomini sarebbero tornati a contatto diretto con il Principio. Di qui, attraverso la progressiva immanentizzazione del fine della storia realizzata dagli interpreti delle filosofie della storia del secolo XIX, Hegel, Marx e Comte, si sarebbe infine giunti alla religione secolare dei diritti dell’uomo. Harouel fa propria la lezione di Eric Voegelin (ma, per certi aspetti, nelle sue pagine, è presente l’insegnamento di Leo Strauss) secondo il quale le religioni politiche si riconducono a due forme di fede: quella nell’uomo inteso quale soggetto della corsa verso il progresso e quella in un «collettivo», rappresentazione mondana della sostanza divina (la classe, la razza, il partito), quale motore del percorso umano nel tempo.
La religione dei diritti dell’uomo ha sostituito, nelle aspettative rivoluzionarie, la società senza classi e l’estinzione dello Stato, con il «memismo»: «un’ideologia dell’indifferenziazione e dell’identità tra tutti i generi umani, che li obbliga ad allontanarsi da qualsiasi elemento che ingenera distinzione» (p. 42). Se, un tempo, l’altruismo faceva parte dei comportamenti individuali virtuosi, era patrimonio dell’etica del singolo, ora è stato istituito quale principio giuridico in molte legislazioni europee. La sorveglianza della corretta applicazione di tali principi normativi è affidata ai magistrati che, ovunque, nel nostro continente, si stanno trasformando nei nuovi sacerdoti della religione universale dei diritti dell’uomo. Il «memismo», abolendo le differenze di genere (dottrina del gender) ed ogni forma di identità etnica, culturale, spirituale, implica in sé il «sostituzionismo» di individui e popoli e, in quanto tale, rappresenta per Harouel, la base ideale del neo marcionismo (da Marcione, gnostico che individuava nell’amore l’unico strumento utile ai fini della salvezza). Esso è centrato sul prediligere, in ogni ambito, il reo o il deviante, chi è mancante dal punto di vista comportamentale e normativo, rispetto alla vittima: atteggiamento che le cronache giudiziarie confermano di continuo. Accogliere, amare il prossimo (anche nel caso di un assassino), sono i dogmi della religione dei diritti dell’uomo, con la quale l’Europa sta compiendo la propria, neppur troppo lenta, eutanasia.
A tale prassi è connotato un evidente e consequenziale vaglio, controllo delle idee e della loro circolazione nelle società contemporanee, dal tratto discriminatorio e liberticida. Il libro che presentiamo è un appello ai popoli d’Europa perché conseguano contezza dello stato presente delle cose e si ribellino. Ribellarsi, in tale contesto, è davvero giusto!

 

Quando i diritti umani sono contro il popolo: il pamphlet incendiario di Harouel di Matteo Fais, «Vvox», 29 giugno 2019

 

I francesi hanno tanti difetti: la loro igiene è sommaria – per non dire che sono proprio sozzi –, il loro Presidente imbarazzante. In compenso, pur avendo una tradizione di sinistra molto forte, pare che oltralpe sussista ancora una certa qual libertà d’espressione. A parte Michel Houellebecq, che è il caso più noto ed eclatante, sono tanti gli intellettuali a scrivere contro lo status quo imperante e a farlo senza paura, con mordente. Inutile dire che, qui in Italia, non vengono quasi mai tradotti. Noi ci limitiamo a importare Bernard-Henri Lévy, una specie di Saviano più bello, con un ciuffo alla Sgarbi e sempre vestito da gran damerino, che nella sua sostanza è un totale idiota europeista come ce ne sono già in abbondanza in giro per lo Stivale.

Per fortuna, qualche casa editrice meno nota ogni tanto si arrischia nell’impresa di farci arrivare i grandi francesi dissidenti. È il caso di “LiberiLibri” – il cui catalogo è a dir poco succulento – che propone Jean-Louis Harouel e il suo “I diritti dell’uomo contro il popolo”, un pamphlet incendiario e imperdibile per chiunque si senta soffocare nel totalitario panorama intellettuale ed editoriale italiano. In esso l’autore attacca tutte quelle folli tendenze, dal mondialismo, all’immigrazionismo, l’odio verso la propria patria, ecc, individuando la loro radice in una visione dei diritti dell’uomo assurta a religione laica e secolarizzata.

Senza stare adesso ad approfondire la ricostruzione storica fornita dal polemista, che rintraccia le radici teoriche di questo pensiero, il libro chiarisce come, in un tempo di grandi spostamenti e migrazioni, le basi che hanno garantito la civile convivenza nel mondo occidentale si stiano rivoltando contro i suoi stessi

propugnatori, fino a mettere a rischio la loro sussistenza («[…]la  religione  secolare dei  diritti dell’uomo afferma che, essendo tutti gli uomini perfettamente intercambiabili, un popolo qualsiasi, ad esempio malese o turco, può indifferentemente rimpiazzare i francesi indigeni e far continuare a funzionare la Francia. È nel nome di questo dogma che gli europei si vedono oggi minacciati di scomparire, come civiltà e come nazioni, per fondersi nel grande tutto di un’umanità mondializzata»).

Com’è noto e come sa chiunque non sia solito coprirsi gli occhi con un quintale di salame, il pericolo fondamentale è rappresentato dall’Islam che, a mezzo di movimenti sempre più ingenti di persone, ci minaccia e usa i diritti dell’uomo come scudo per portare avanti il suo piano, rendendosi così inattaccabile («hanno il loro particolare regime giuridico che li protegge, la loro legge privata, il loro privilegio. Sono delle categorie nei cui confronti la libertà di espressione è soppressa, proibito criticarle anche se in maniera fondata. Esse sono poste al di sopra del resto della società. Sono sacre. Il  nuovo diritto penale che vieta che queste categorie possano essere oggetto di un libero dibattito è un diritto penale religioso, quello della religione secolare dei diritti dell’uomo. È al servizio di alcune minoranze e di certe religioni, rispetto alle quali ogni opinione critica è denunciata da una parola che termina con ‘fobia’»).

All’autore risulta ben chiaro che non si potrà se non andare incontro a un inesorabile declino e sostituzione etnica, se la rotta non verrà invertita bruscamente (“L’immigrazione extra-europea è ormai costituita non più da individui ma da popolazioni. Ma, se gli individui possono integrarsi, le popolazioni non si integrano […]L’esistenza di vaste diaspore toglie agli immigrati ogni bisogno di entrare in contatto con le società europee, dal momento che essi hanno ricostituito sul suolo europeo la loro società d’origine con i relativi usi e codici. […]formano sul suolo europeo degli insiemi nazionali extra-europei, la cui identità è costantemente conservata e stimolata dal flusso continuo dei migranti provenienti dai Paesi di origine”). E mentre gli apostoli di questa religione mondialista gridano e strepitano contro il patriottismo e il sovranismo, chi occupa l’Europa porta avanti un discorso razzista basato sulla superiorità della sua religione e identità, spesso covando apertamente odio verso chi lo ha accolto e aspirando a scalzarlo senza pietà («nei Paesi europei le sole rivendicazioni identitarie che non rischiano di essere accusate di razzismo o di xenofobia sono quelle che provengono o dagli stranieri o da persone in possesso della cittadinanza ma la cui origine è straniera»).

Eppure forse il vero problema, come si evince in filigrana al testo, non sono neppure gli islamici, ma coloro i quali praticano “l’amore dell’altro” fino all’oblio di sé stessi, generazioni allevate secondo la nuova religione imperante così smaccatamente a detrimento dell’Europa e soprattutto del popolo. Come sottolinea Jean-Louis Harouel: «c’è un aspetto del Vangelo impraticabile per la vita normale. Amare il proprio nemico, porgere l’altra guancia: sono dei percorsi di santificazione individuale, non delle regole di diritto che si possono imporre a tutta una popolazione. Il millenarismo dell’amore per l’altro spinto fino al disprezzo di sé causa la morte delle società che vi si abbandonano». Potremmo mai salvarci? L’autore non si spinge oltre verso il regno della divinazione, anche quando illustra certe concrete reazioni da parte di alcuni stati europei. Una cosa è certa, comunque: prima di decidersi eventualmente a reagire, è necessario maturare una coscienza del problema. In tal senso questo testo, per brevità e chiarezza, non può che essere considerato fondamentale.

 

Così l’Occidente democratico si arrende all’islam assolutista di Giampietro Berti, «il Giornale», 14 giugno 2019, pag. 31

 

«Con le vostre leggi democratiche, noi vi colonizzeremo. Con le nostre leggi coraniche noi vi domineremo». Queste parole, pronunciate a Roma nel 2002 da Yusuf al-Qaradawi, uno dei principali dirigenti a livello europeo dei Fratelli Musulmani, non sono molto diverse da quelle proferite dal nazista Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich: «uno degli aspetti più ridicoli della democrazia rimarrà sempre il fatto che essa abbia offerto ai suoi nemici mortali i mezzi mediante i quali distruggerla».

Dunque, oggi come allora, chi coltiva lo sciagurato proposito di abbattere le libertà vigenti nelle società liberaldemocratiche dell’Occidente dimostra di avere la piena consapevolezza che la democrazia liberale può essere distrutta grazie alle opportunità politiche, sociali e culturali che essa stessa offre a chi vive al suo interno e usufruisce della sua liberalità e della sua tolleranza. Insomma, più che di un omicidio, si deve parlare di un suicidio assistito. È questo, nella sostanza, il senso complessivo che si ricava dalle amare riflessioni di Jean-Louis Harouel in I diritti dell’uomo contro il popolo (Liberilibri, pagg. 132, euro 15, introduzione di Vittorio Robiati Bendaud) che prende in esame l’odierno avanzare dell’islamismo in Francia.

I diritti dell’uomo contro il popolo sono i diritti scaturiti degli ideali del 1789, Liberté, Égalité, Fraternité, come espressione di un insieme di valori illuministici diretti a garantire a ognuno l’effettiva possibilità di perseguire i propri fini, garantendoli dall’invadenza del potere. Ora questi diritti si sono rovesciati in una finalità opposta, perché da presidio di libertà si sono trasformati in un’arma micidiale nelle mani di tutti coloro che non vogliono riconoscere e rispettare le tradizioni politiche, religiose e culturali (basti pensare al disprezzo per il cristianesimo) che costituiscono globalmente l’identità specifica della vita popolare. Da mezzo di liberazione contro il potere, questi diritti sono diventati mezzo di oppressione contro il popolo. È su questo sfondo che si pone il senso del discorso di Harouel, riassumibile in questo modo. L’islamizzazione della Francia, già in atto da due decenni e, a raggio più ampio, l’islamizzazione dell’Europa, risulta inarrestabile perché la civiltà liberale non è in grado di difendersi, essendo priva di una fede centrale e, contemporaneamente, pervasa da un «vuoto pneumatico», il laicismo, il quale è tutto costruito sul paradigma relativistico, sulla non fondazione assoluta dei valori e sul sistematico dubbio che non esistono verità esclusive. Il relativismo, dovuto al politeismo dei valori, dischiude dunque un orizzonte latentemente nichilista, quale esito inevitabile del lungo processo di secolarizzazione iniziato con l’età moderna. Esito che si presta a essere facilmente attaccato da chi si trova sul lato opposto della barricata, cioè da chi, pervaso da un senso esistenziale religiosamente forte, per non dire assoluto, combatte a morte proprio il processo di secolarizzazione. Contro il laicismo si erge infatti la cultura islamica, la quale si alimenta soltanto della propria identità e della fede nella propria verità, pretendendo di estendere a chiunque i suoi valori e il suo stile di vita.

L’Islam è un fenomeno antimoderno e irrimediabilmente antiliberale, dato che la sua intima natura è basata sull’annullamento di ogni separazione fra potere spirituale e potere temporale, fra religione e politica: la sua identità è monolitica perché diritto e religione sono indistinguibili. Conseguentemente, la religione non è una componente o una dimensione della vita, che regola alcune questioni e dalla quale altre sono escluse: essa coinvolge l’intera esistenza, in una giurisdizione non limitata ma totale.

Il confronto della civiltà liberale con la cultura islamica risulta molto difficile e tendenzialmente perdente poiché quest’ultima non possiede il requisito laico della propria autolimitazione. In altri termini, è priva della capacità di conferire un riconoscimento legittimante al diverso, cioè è priva della necessaria consapevolezza che tale legittimazione deve essere immediata e universalmente reciproca perché non si può dare vera convivenza se non come implicita conferma di un automatico scambio polivalente, ovvero come ovvio riconoscimento della fondazione non assoluta dei valori altrui, e dunque, per logico e speculare contraccolpo, di quelli propri.

Del tutto fuori luogo, perciò, sono tutte quelle analisi che tendono a individuare nella divaricazione tra l’opulenza dell’Occidente e la miseria del Terzo Mondo la vera causa del conflitto fra civiltà liberale e religione islamica, come ripete la viltà del «politicamente corretto», con la solita, scontata criminalizzazione dell’Occidente. I teorici del «politicamente corretto», allineati soprattutto a sinistra, non vogliono sentir parlare dello scontro di civiltà, già rilevato a suo tempo da Samuel Huntington. L’Islam è avverso all’Occidente in termini religiosi e politici, perciò il senso vero dello scontro in atto è questo: una lotta mortale tra laicità e religione, scontro che illustra anche il senso profondo della storia contemporanea.

 

Ai diritti umani si può anche dire no, di Francesco Borgonovo, «Panorama», 5 giugno 2019, pag. 59

 

E se il problema fossero i diritti umani? Una parola, oggi, ripetuta allo sfinimento: i «diritti» dei migranti, delle minoranze, dei musulmani… Ma se fosse questa proliferazione di diritti a causare la fine dell’Occidente? Se lo chiede lo storico francese Jean-Louis Harouel, nel libro I diritti dell’uomo contro il popolo, caso editoriale in Francia e ora uscito in Italia grazie all’editore Liberilibri.

Harouel illustra il concetto del percorso dei diritti umani e, in poche fulminanti pagine, espone la sua tesi: «È invocando i diritti dell’uomo che numerosi individui abusano sistematicamente del loro diritto ad avere dei diritti, avanzando rivendicazioni che minacciano la sopravvivenza
delle nazioni europee». Il pensiero corre ai rapporti con l’Islam. I musulmani chiedono più spazio, più moschee, più rispetto per le proprie usanze. Ed è in nome di questi diritti che l’Europa e l’Occidente tendono ad accogliere le loro istanze. Più in generale, il discorso vale per la questione migratoria. Oggi ogni pretesa di una minoranza si trasforma in un diritto. Risultato: è la minoranza a dettare legge, alla maggioranza tocca subire. Le tradizioni e le culture «altre» tendono a imporsi sulle nostre, e i diritti degli europei passano in secondo piano rispetto a quelli degli ospiti. È giunto il momento di porre dei limiti. E di separare i diritti fondamentali e sacrosanti dalle rivendicazioni arroganti che ci mettono in pericolo.

 

Chi difende i diritti altrui rischia di perdere i propri di Emanuele Ricucci, «Libero», 2 giugno 2019

 

Diritti ovunque e per tutti.­ Allora pretendiamo il diritto all’estinzione. O tempora, o mores! Se questo è vivere, nell’orribile ombra di quello che è stato l’Occidente , demiurgo della civiltà umana, eredità del mon do, bramiamo il diritto di staccare la spina con il nostro essere storia, con il nostro essere partecipi del tempo, con il nostro essere esistenza pensante, deci­dente, con il nostro es­sere vivi, significanti, presenti. Scegliamo di sprofondare nella ca­verna del nichilismo, nell’individualizzazio­ne estrema della vita, di discostarci dall’altro, di odiarci, di frammentarci, dividerci. Preten­diamo il diritto all’estinzione pur di essere sottomessi alla pratica perversa del progresso, che forse, di tutti i mali, ne ingenera uno: la defor­mazione della libertà. Mostruosa deformazione ideologica in cui è la percezione a prevalere sulla ragione. E in cui i diritti non partecipano più solamente, come dovrebbero, alla costruzione di una libertà più matura, ad una crescita del corpus sociale, ma assumono i contorni sfumati di carne da macello elettorale, come fine ideologico, innescando, grazie alla pratica ossessiva del progresso, un processo di garanzia di soddisfazione materiale, secondo cui ogni capriccio deve essere riconosciuto come legge, in cui ogni capriccio de­ve essere elevato a diritto.

L’arma ideologica

E così, secondo la logica progressi­sta, una società che garantisce giuridicamente le unioni civili, come modalità di crescita sociale, come pas­so in avanti del “buonsenso” comu­ne, dovrà poi contrastare la batta­glia contra l’aborto, ritenuta inade­guata al nuovo regime di libertà indi­viduali, impedendo ad associazioni come ProVita di estendere il proprio messaggio con un manifesto in città. Questa è crescita? Come l’ob­bligo di firma di un documento in cui si attesta di essere antifascisti per poter richiedere l’occupazione del suolo e manifestare democrati­camente la propria idea, nonostante l’art. 21 della Costituzione, sia una forma di maturità sociale derivata e di garanzia di diritti? Questa è liber­tà? E allora viene da pensare, in sen so generale, che la pressione eserci­tata dal progressismo verso la libertà, trasformi i diritti in un’arma ideo­logica.

Diritti, quindi, come elevazione di capricci a legge, non come coesio­ne sociale, ma come frammentazio­ne ideologica in tante minoranze richiedenti spazi sempre maggiori, ma soprattutto, ed è questo il grande male odierno, diritti come copertura di una conti­nua e mancata assun­zione di responsabilità in un tempo che vuole discolparsi da tutto. Lo si chieda ai paladini del diritto degli oppres­si di fuggire, con ogni mezzo, lecito o meno, dall’oppressore, rinunciando al dovere di combattere per la pro­pria terra. Questa è la libertà del pro­gresso? Queste provocazioni complessive, che non si discostano dalla realtà, sono parte del messaggio di Troppi diritti. L’Italia tradita dalla Libertà, (Mondadori,  pp.181, euro 18) di Alessandro Barbano, che compone un viaggio nel pensiero di un Paese tradito dalla libertà, in cui nessuna elite ha più il coraggio di dire il vero e di fare i conti con mino­ranze organizzate sotto la bandiera dei diritti acquisiti. Barbano ci pro­ietta nell’ipertrofia dei diritti, causa del declino italiano. In passato, se­condo il direttore del Mattino, i diritti individuali sono stati il carburante che ha alimentato la nascita, la cre­scita e l’affermarsi delle democrazia. Ma quando quei diritti sono di­ventati principî guida delle società, è emerso anche il loro lato oscuro, favorito oggi dallo sviluppo di inno­vazioni tecniche che aprono inedite prospettive. Proprio la visione di queste nuove possibilità amplia lo spazio delle aspirazioni del singolo e dei gruppi, facendo perdere di vi­sta il limite etico insito nel concetto stesso di libertà.

È ciò che si definisce «dirittismo», malattia che esibisce un sintomo or­mai sotto gli occhi di tutti: la crisi della delega, ossia la rinuncia a qualsiasi mediazione tra gli interessi di uno o di pochi e quelli di tutto il corpo sociale.

L’anticonformista

Compie lo stesso percorso un altro grande – che si aggiunge all’olimpo della Francia anticonformista – già fieramente rappresentata da menti lucide e necessarie come quelle di Houellebecq, Carrère, Ra­spail, Le Gallou: stiamo parlando di Jean Louis Harouel, storico, docen­te e pensatore parigino.

Arriva in Italia il suo I diritti dell’uomo contro ii popolo (Liberi­libri, pp.106, euro 15), tradotto da Maria Giustozzi e introdotto da Vit­torio Robiati Bendaud, che si erge come affilatissimo e accorato grido d’allarme in difesa della civiltà e del­le democrazie europee, a rischio so­pravvivenza. l diritti dell’uomo han­no permesso agli individui di svilup­pare la loro libertà al riparo dagli ar­bitri del potere. Ma cosa succede quando l’ipertrofia dei diritti perver­te lo scopo per cui  erano nati, trasformandosi in una gabbia per la li­bertà stessa, diventando un sistema manipolato da persone provenienti da altri popoli con lo scopo di impor­si sul nostro suolo e far trionfare i loro interessi contro il nostro popolo? Tra le pagine la storia e il signifi­cato dei diritti dell’uomo e la loro involuzione in vero e proprio disgre­gatore sociale, dalla gnosi e il mar­cionismo, fino al millenarismo e al socialismo.

I diritti dell’uomo producono come effetto finale la dissoluzione del­la società occidentale, sono lo strumento di una conquista silenziosa, ma reale, del Paese di accoglienza da parte di chi punta alla distruzio­ne delle nazioni e dei popoli europei grazie a un’immigrazione incontrollata e al peso dell’influenza socia­le islamica: «È invocando i diritti dell’uomo che numerosi individui abusano sistematicamente del loro diritto ad avere dei diritti, avanzan­do rivendicazioni che minacciano la sopravvivenza delle nazioni euro­pee».

Secondo Harouel, continuare a permettere di erigere minareti e far sbandierare veli islamici è suicida­rio per la Francia, che può arginare la conquista di intere porzioni del suo territorio da parte della civiltà arabo-musulmana solo rinunciando alla religione millenarista dei di­ritti dell’uomo, uno slogan dietro al quale «i fanatici della prosternazio­ne di fronte all’lslam conducono la loro predicazione e la loro lotta».