Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni furono i due studiosi che richiamarono alla scienza economica italiana la perduta attenzione internazionale. La stella di Pantaleoni, a differenza di quella dell’amico, non ha però continuato a brillare senza nuvole: e per lungo tempo quello che fu definito, da Piero Sraffa, “il principe degli economisti italiani” è stato condannato all’oblio.
Per riscattarne la memoria, Sergio Ricossa pensò, negli anni Settanta, quest’antologia: una sintesi dei ben più corposi Erotemi di economia, setacciati e presentati da un altro irregolare della cultura italiana, Ricossa appunto. Curatore e autore antologizzato sono uniti dalla preferenza per l’economia di mercato, dall’apprezzamento per il processo innestato dalla rivoluzione industriale («fastigi che la storia mai conobbe»), dal rapporto per nulla facile con la cultura italiana a loro contemporanea.
Non a caso Ricossa invitava a riscoprire, con l’economista, l’uomo Pantaleoni: «un uomo appassionato e appassionante, ricco di umori, severo ma non incapace di entusiasmi».
Il manicomio del mondo
Gli scritti del “principe degli economisti italiani”, feroce avversario di ogni socialbuonismo, selezionati da Sergio Ricossa
A cura di Sergio Ricossa
Introduzione di Manuela Mosca
Pagine XX-194
ISBN 978-88-98094-53-0
Prima edizione 2019
Il prezzo originale era: 18,00 €.17,10 €Il prezzo attuale è: 17,10 €.
M. Pantaleoni, Il manicomio del mondo e altre pagine scelte, di Luca Tedesco, «Il Pensiero Storico», Luglio-Dicembre 2019, pagg. 1-3.
Non si può certo dire che la figura di Maffeo Pantaleoni non sia stata studiata dal 1976, anno della prima edizione, curata da Sergio Ricossa, dell’antologia di scritti del «principe degli economisti italiani», secondo la definizione datane da Piero Sraffa, ad oggi (basti pensare, solo per fare un
nome, ai lavori di Luca Michelini). Cionondimeno non possiamo non accogliere con favore il ritorno in libreria della silloge, la cui lettura può ancora una volta lumeggiare le premesse antropologiche del discorso economico di Pantaleoni come anche la sua concezione della scienza e
quindi il fundamentum divisionis rispetto a ciò che scienza non è.
Alla vigilia della prima guerra mondiale, difatti, Pantaleoni, nella prolusione a un suo corso universitario, pur affermando che la libertà economica e politica avesse portato il «benessere economico a fastigi, che la storia mai prima conobbe», non escludeva che essa avesse mortificato
«altre forme di felicità umana» (p. 34). Alcuni anni prima, in una conferenza tenuta a Parma presso l’Associazione per il progresso della scienza, aveva ammesso come fossero «svariatissimi i modi di sentirsi felici» e che «la felicità economica non è per tutte le società e in tutte le epoche il
sommo degli ideali» (p. 65). Ci sono coloro che sono felici solo perché hanno «una capanna e un cuore» e altri che affidano il loro benessere non a quello materiale ma all’osservanza dei «dettami della […] religione» o alla «felicità politica», che fanno consistere nell’indipendenza dallo
straniero o nel self-government, nel «governo degli ottimati» o in «quello delle plebi» e via dicendo (ibidem). Vi sono addirittura «società che vogliono la propria morte, cioè, società che si rifiutano al costo di elevare una prole adeguata al rifornimento della specie» (p. 66).
Di fronte, così, al milliano (e poi weberiano) «politeismo dei valori», lo scienziato, per Pantaleoni, non può certo indicare la strada da battere data l’impossibilità di una fondazione scientifica dei sistemi valoriali. Ne discende che, quando si fa «della scienza economica», lo studioso dovrà ad
esempio illustrare gli effetti del protezionismo, ma non pronunciarsi sull’opportunità di quest’indirizzo di politica economica. Al dominio della scienza non appartiene l’«ideale»; per essa, che esamina solo l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine, quest’ultimo è un mero «dato di fatto», posto dal decisore politico di turno (pp. 23-24). Se e solo se, quindi, si individua nella massimizzazione della produzione una conditio sine qua non del benessere sociale, allora alcuni mezzi per Pantaleoni sono irrinunciabili ed altri invece vanno respinti con forza. Di entrambe le tipologie, gli scritti pantaleoniani offrono urticanti chiarificazioni nel tentativo di demistificare
pregiudizi ed idola consolidati. Se, così, si ritiene che elemento costitutivo della felicità sia l’incremento della ricchezza materiale, non si potrà allora per l’economista di origine marchigiana non perseguire un regime di concorrenza, «sorgente più energetica di dinamismo sociale», «demolitore di ogni specie di posizione acquisita» (p. 46) e condizione indefettibile della divisione del lavoro, «la macchina più potente della quale disponga l’umanità» (p. 87) e senza la quale il «regresso» all’antropofagia sarebbe certo e «rapidissimo» (p.47).
Proprio la minaccia alla divisione, alla «cooperazione del lavoro», rendeva il progresso economico incerto, una conquista mai assicurata una volta per tutte. Il socialismo rispondeva difatti a tratti antropologici profondi, che aspiravano non a dinamizzare la società ma a fossilizzarla, a renderla più «statica», a «burocratizzare la vita», ad «eliminare la rivoluzione perpetua» (p. 64). Solo una frazione minoritaria della società, scriveva Pantaleoni con stile immaginifico, «funziona da lievito» (ibidem).
Peraltro, proprio un preciso carattere della natura umana, l’egoismo, contrastava provvidenzialmente l’erosione della divisione del lavoro. «I capaci smettono di lavorare più e meglio degli incapaci, se il loro premio non è maggiore» (p. 167), osservava icastico l’economista. Per questo motivo psicologico profondo, che solo l’infantilismo socialista poteva ignorare, era opportuna la disuguaglianza nelle remunerazioni ma non necessariamente giusta, in quanto Pantaleoni, ostile alla concezione del libero arbitrio, rifiutava come implausibile anche quella fondata sul merito poiché nessuno ‘merita’ le caratteristiche biologiche di cui è portatore,
caratteristiche che secondo l’economista determinano le attitudini individuali: «si nasce con carattere energico o debole, dotato di volontà o no, ordinato o no, perseverante o no, disciplinato o no» (p. 136). Ma anche se le qualità biologiche mutano lentissimamente nel corso dell’evoluzione,
era a questa e non a progetti di ingegneria sociale che i socialisti avrebbero dovuto affidare le loro speranze di un superamento degli «istinti feroci che ruggiscono nella bête humaine» (p. 158). Se fallace era la sfiducia nel «progresso psichico», altrettanto fallace era credere che esso potesse
«essere un prodotto artificiale» e non derivasse proprio dalla tanto esecrata, dai socialisti, concorrenza: «più diventano numerosi i contatti e più diventano intricati gli interessi che collegano gli uomini tra di loro, più si estende eziandio la zona della loro sensibilità e si limita, al contatto degli altri, il loro egoismo, faccettandosi come un brillante» (p. 159).
Proprio l’obiettivo, velleitario, dei socialisti di costruire in laboratorio una nuova società avrebbe reso improbabile la realizzazione di quella socialista che, inevitabilmente «cristallizzata e irrigidita» (p. 173), non avrebbe potuto che soccombere nella competizione con quella concorrenziale: «come stanno ora le cose, si può dire che il mondo, o s’ha da fare socialista tutto quanto, e presso a poco in una sola volta, o deve rinunziare a poterlo diventare parzialmente e gradatamente» (p. 171). Tale profezia, osserva Ricossa nell’edizione della raccolta pantaleoniana degli anni Settanta, sarebbe stata «parzialmente smentita dai fatti» (p. 171), e Manuela Mosca, nelle pagine introduttive di quella che oggi si presenta al lettore, nota acutamente come il compianto professore torinese ritrovasse nei brani antologizzati le questioni e gli interrogativi di una vita. Oggi, però, nel trentennale della caduta del muro di Berlino, possiamo dire che Pantaleoni prima e il Trockij della rivoluzione permanente poi avessero forse ragione. Il comunismo non realizzatosi su scala planetaria, nella sfida con l’avversario capitalista, è durato solo pochi decenni, un battito di ciglia nella storia dell’umanità, travolto dalla sua patente inferiorità in termini di capacità produttiva.
Quando il mondo è un manicomio di Pietro Di Muccio de quattro, «l’Opinione», 5 luglio 2019.
“Di ogni evento sgradito gl’Italiani cerchino ogni ora una delle cause in loro medesimi. Ve la troveranno pure. E sarà la sola cosa importante. Imperocché soltanto noi stessi, noi possiamo muovere. Non già gli altri. Né le cose bensì noi stessi, in rapporto agli uni e alle altre. Daremo allora l’ascia dove unicamente possiamo darla e dove porta frutto” scrisse Maffeo Pantaleoni nel 1919, giusto un secolo fa!
Questo filone di pensiero, che procede da Dante a Machiavelli, da Leopardi a Prezzolini e Ricossa, costituisce il nerbo di una filosofia civile altissima quanto elitaria. Infatti la massa del popolo italiano predilige le snervate credenze che facilmente lo illudono e trascinano lungo i sentieri dell’irresponsabilità morale e politica. Come ci è capitato di sottolineare nell’Ideologia italiana, “il cittadino nutre la convinzione che, nella società, il bene proviene da lui anche se si comporta male, mentre il male deriva dagli altri pure quando agiscono bene”.
Chi fu Maffeo Pantaleoni (1857-1924), che pure con Vilfredo Pareto riportò all’attenzione internazionale la scienza economica italiana e Piero Sraffa definì “il principe degli economisti italiani”? È triste dover constatare che egli cadde nell’oblio e fu merito (l’ennesimo merito!) di Sergio Ricossa l’averne riproposto l’opera nel 1976 curandone l’antologia Il manicomio del mondo e altre pagine scelte, che adesso l’editore “Liberilibri” ha ristampato con prefazione di Manuela Mosca.
Quali furono le cause dell’oblio? È presto detto, semplicemente elencando qualche nome dei capitoli evidenziati da Ricossa, una piccola silloge di quelle “verità effettuali” (Machiavelli) che gl’Italiani respingono appassionandosi ad opposte fantasie: “qualunque imbecille può imporre nuove tasse”; “non vi sono prigioni per gli uomini di Stato”; “il socialismo si vanta di frutti non cresciuti nel proprio giardino”; “è utile il sindacalismo?”; “sono utili gli scioperi?”; “ciascuno e tutti sono imprenditori”; “come avvenga che le nazioni progrediscano e decadano”; “il progresso sociale incute alle masse un vero terrore”; “il merito non esiste”; “la giustizia è una chimera”.
Ognuno di questi e gli altri capitoli demoliscono, con devastante logica, lucida passione, brillante ironia, i fangosi luoghi comuni nei quali “i benpensanti” si rivoltolano godendone come maiali nella melma. Nel capitolo “La realtà storica e il mito”, per esempio, leggiamo: “A teatro importa ciò che avviene sulla scena. Del retroscena gli spettatori non si curano in alcun modo. In politica non è così. Ciò che i popoli pagano con denaro e sangue, con il loro onore, con la loro prosperità, con la sorte delle generazioni venture, tutto questo avviene nel retroscena. La realtà storica è là. Sulla scena si svolge l’inganno: il mito. La scena si accomoda ad uso ed inganno dell’incurable imbécile come Gohier chiama l’elettore, il contribuente, il cittadino”.
Quali adesso le ragioni della ristampa del gioiellino Pantaleoni-Ricossa, “feroci avversari di ogni socialbuonismo”? Anche qui è presto detto, e ben detto, con le parole dell’Editore: “In questi anni di ben temperati conformismi, offrire agli italiani la possibilità di rileggere – o leggere – questi urticanti pensatori, potrà invece rivelarsi utile. I loro affilati argomenti demolitori delle sempre riemergenti superstizioni egualitarie e stataliste, non mancheranno di schiarire l’orizzonte offuscato delle nostre menti, impigrite da decenni di martellanti demagogie”.
Maffeo Pantaleoni l’economista liberale che voleva “curare” la follia statalista di Giampietro Berti, «il Giornale», 10 luglio 2019, pag. 23.
Maffeo Pantaleoni (Frascati 1857-Milano 1924) economista e intellettuale liberista di prima grandezza, rientra senz’altro nel novero di quella esigua schiera di pensatori lucidi e disincantati, in gran parte rinvenibili nell’ambito conservatore, che hanno decifrato in chiave realistica la storia, la società e la natura umana.
Esce ora una raccolta di suoi scritti edita da Liberilibri a cura di Sergio Ricossa, recentemente scomparso, e anch’egli grande economista liberale-liberista: Il manicomio del mondo e altre pagine scelte (introduzione di Manuela Mosca Liberilibri 2019, pagg. XXII-186, euro 18). L’antologia è arricchita da note redatte da Federico Bindi, Filippo Cavazzoni, Alessandro Cocco e Alberto Mingardi dell’Istituto Bruno Leoni. Nella presenta-zione del libro, l’editore ricorda che Pantaleoni e Ricossa sono stati entrambi feroci avversari di ogni socialbuonismo, per cui in questi anni di ben temperati conformismi offrire agli italiani la possibilità di leggere questi «urticanti pensatori» non può che rivelarsi utile: «i loro affilati argomenti demolitori delle sempre riemergenti superstizioni egualitarie e stataliste, non mancheranno di schiarire l’orizzonte offuscato delle nostre menti, impigrite da decenni di martellanti demagogie».
In questa antologia il realismo lucido e disincantato di Pantaleoni si dispiega attraverso una serie di punti fra loro strettamente intrecciati. Il criterio di fondo che tutti li unisce è dato dall’inconciliabile nesso tra libertà e uguaglianza perché l’attivazione completa della libertà non può che produrre un’irrimediabile disuguaglianza. Pantaleoni denuncia l’istanza non realistica della teoria egualitaria, in quanto concetto assurdo del tutto estraneo alla vita e alla realtà. Esso sta alla base sia della democrazia, sia del socialismo, conferendo a questi movimenti un carattere utopistico. Il vagheggiamento dell’utopia, che in qualche modo è rintracciabile anche nelle formulazioni teoriche di alcuni economisti, scaturisce dalla volontà di realizzare un mondo di perfezione senza lotte e senza contrasti, dimenticando che nella storia la forza, l’autorità e il potere sono presenze ineliminabili. Il problema, infatti, non consiste nell’abolire il conflitto fra gli esseri umani, ma nel civilizzarlo. A partire dall’errato presupposto egualitario, che assegna un valore preminente alla volontà dei più, la democrazia e il socialismo tendono, inoltre, a sostituire la quantità alla qualità, spianando così la strada alla demagogia e alle dittature, fino a distruggere sé medesime.
La democrazia e il socialismo, in quanto movimenti di carattere politico, poco contribuiscono, per Pantaleoni, al progresso umano, se per progresso si deve intendere quello derivante dallo sviluppo economico, tecnico e scientifico, il solo in grado di diffondere nella società, specialmente nei suoi strati più deboli, un effettivo benessere generale. Sotto questo profilo si può dire che qualsiasi movimento politico è ben lungi dal conseguire i risultati specifici ottenuti dall’azione economica. Non sono state le cruenti rivoluzioni politiche che hanno cambiato realmente la società, ma la pacifica rivoluzione industriale iniziata nella seconda metà del Settecento, la sola vera effettiva rivoluzione dell’età moderna. Il mondo – e questo lo aggiungiamo noi – è stato trasformato più da uomini come James Watt che da tutti i capi di tutte le rivoluzioni politiche degli ultimi due secoli. Appare evidente, quindi, che i benefici risultati dell’azione economica sono dovuti all’ingegno e allo sforzo organizzativo degli imprenditori. Si deve pertanto riconoscere che, in un regime liberale dove vige il libero scambio dei beni e dei servizi, è la diversità disegualitaria dei talenti, posta in essere dal dispiegamento attivo della libertà, che crea il benessere generale e non certo l’erogazione sociale indifferenziata del lavoro collettivo come viene proclamato dal socialismo marxista.
Il rapporto fra le rivoluzioni politiche e le attività economiche rimanda così, secondo Pantaleoni, al problema irrisolvibile della natura umana, da lui giudicata, come tutti i conservatori, immodificabile: le rivoluzioni politiche sono inutili perché la natura umana è immodificabile. L’individualismo radicale di Pantaleoni approda al paradosso, quando giunge ad affermare che il merito delle persone non esiste, affermazione che sembra addirittura negare il libero arbitrio. Ed in effetti, se si pensa che la gerarchia dei talenti sia dovuta alla natura e non al contesto culturale ed educativo, per cui uno nasce stupido e un altro intelligente, uno pigro e l’altro volonteroso, ecc., non ha alcun senso credere all’effettiva possibilità di cambiare in modo significativo la società. Certo, l’educazione deve fare la sua parte per migliorare il genere umano, ma da essa più di tanto non si può pretendere. Il liberismo antistatalista di Pantaleoni denuncia, infine, la dannosità dei governi, specialmente quando questi sono nelle mani degli incompetenti perché, come egli scrive, «qualunque imbecille può inventare e imporre tasse».
I governi non sanno garantire l’ordine: facciamoci comandare dal mercato di Alberto Mingardi, «tuttolibri La Stampa», 13 luglio 2019, pag. 23.
«Si cessi di trasformare il mondo in un manicomio». I governi non sanno garantire l’ordine pubblico, «la stretta osservanza della validità delle contrattazioni» e neppure la stabilità del diritto. In compenso gestiscono (male) imprese le più diverse, creano monopoli e privilegi ai danni dei consumatori, sfiancano l’iniziativa privata regolamento dopo regolamento, si sostituiscono al mercato nel decidere quale sia «il prezzo giusto» per un certo bene o servizio. La divisione del lavoro, cioè «la macchina più potente della quale disponga l’umanità», ne esce distrutta.
Queste parole di Maffeo Pantaleoni risalgono al 1920, la guerra è appena finita, la sfida «della ripresa economica e della ricostruzione» ha bisogno, secondo l’economista marchigiano, di una cosa soltanto: che si cessi, appunto, «di procedere alla trasformazione del mondo in un manicomio». A cent’anni di distanza, sappiamo che l’auspicio di Pantaleoni è stato vano: non c’è shock dal quale un Paese si sia ripreso limitando le proprie aspettative circa compiti e attività dello Stato, che anzi, di crisi in cri si, si sono moltiplicate. Contribuendo ogni volta a preparare il crac successivo.
Proprio Il manicomio del mondo s’intitola l’antologia di Pantaleoni che Liberilibri ha appena dato alle stampe. Il libro riprende, con una nuova Prefazione di Manue la Mosca, un testo curato, nel 1976, da Sergio Ricossa per l’editore Volpe. Ricossa fece un lavoro di taglio e cucito: dalla produzione pantaleoniana trasse alcuni brani, rimontandoli a formare 27 capitoli, veloci e densi. L’obiettivo era offrire «un antipasto che stuzzichi a leggere integralmente gli scritti pantaleoniani», allora come oggi di difficile reperimento. Ricossa, economista dall’italiano inarrivabile, luminoso e tagliente all’occorrenza, fa l’editor di Pantaleoni, lo strizza in una sintesi che chiarifica e non sottrae nulla al suo ragionare.
Nato nel 1857, figlio di Diomede, personaggio di prima fila del Risorgimento, Maffeo affrontò «una vita accademica travagliata da dimissioni ripetute», scrive Manuela Mosca, fino all’approdo all’ateneo romano nel 1901. Fu legato da una intensa amicizia a Vilfredo Pareto, con cui ebbe scambi fittissimi. Era un uomo di carattere, che ingaggiò battaglia con l’establishment italiano negli anni di Crispi e poi di Giolitti. Alla corruzione dilagante, che produceva rendite e privilegi, rigorosamente in nome dell’«interesse nazionale», Pantaleoni e gli studiosi riuniti attorno al Giornale degli economilti contrapponevano le tesi della libera concorrenza; il mercato, e non il favore del capo politico, come giudice delle iniziative che vanno e di quelle che non vanno. La classe dirigente italiana aveva scarsa propensione a farsi scavare da gocce tanto argomentate quanto polemiche. Pantaleoni gestì le sue amarezze cercando alleanze improbabili e senza riuscire a governare i suoi demoni, al punto da finire nazionalista fra i più accesi. Morì nel 1924, senatore del Regno, dopo aver guardato con favore al primo fascismo.
Di Pantaleoni, Ricossa volle mettere al centro le intuizioni geniali (riconosciute anche all’estero) e non le involuzioni ideologiche.
Lo studioso piemontese, all’epoca, aveva appena pubblicato Storia della fatica, in cui dava conto degli straordinari miglioramenti, negli standard di vita, seguiti alla Rivoluzione industriale. La questione era assai cara a Maffeo Pantaleoni al quale è difficile non riconoscere di avere compreso perfettamente il dinamismo di un’economia moderna, il suo costante produrre novità. Citando William Mallock, Pantaleoni ricorda che in lnghilterra «le classi lavoratrici de] 1896 si sono trovate a stare in una posizione pecuniaria più vantaggiosa di quella che avrebbero avuto i loro padri se avessero potuto espropriare tutti quanti nel 1850». L’industrializzazione avrà forse «ridotto − e non so se ciò sia, e se è, in che misura, − altre forme di felicità umana» ma «ha portato quella che consiste in benessere economico a fastigi, che la storia mai prima conobbe».
Paladino del progresso, Pantaleoni sapeva bene quant’è fragile. Esso può finire vittima del «terrore» delle masse, inquietate dal cambiamento, e più in generale di tutte le idee che inducono a cedere libertà. Fra queste, anche il principio per cui la nostra prosperità sarebbe messa a repentaglio da una maggiore densità della popolazione. È «una opinione di origine socialista che siavi un maximum di popolazione compatibile con la conservazione di un certo tenor di vita in un certo territorio». Che solo «una quantità fissa di popolazione» sia «quella che acconsenta un maximum di benessere» era idea che allora stava alla base della «xenofobia americana», la quale architettava schemi per impedire, ad esempio, l’immigrazione cinese.
Al contrario, il progresso regge solo se chi produce novità può continuare a trarne vantaggio. «Non v’è gioia», rifletteva Pantaleoni, «che un inventore o iniziatore accetterebbe di barattare contro quella che deriva dalla sua convinzione di aver operato bene».
Il segreto dei miglioramenti risiede nell’inventiva, e il segreto dell’inventiva risiede nella concorrenza. «Ogni atto di concorrenza è una nuova invenzione. (…) È la sostituzione di una cosa producente un effetto utile a un’altra, con risparmio di costo. È la sorgente più energetica di dinamismo sociale. È il più forte demolitore di ogni specie di posizione acquisita». Si capisce che i detentori delle posizioni acquisite le difendano come possono: ma fanno tanti più danni quanto più sono bravi a travestire, con formule alate, i propri interessi.
Viviamo in un manicomio e non vogliamo uscirne di Giancristiano Desiderio, www.nicolaporro.it, 9 luglio 2019.
Ma a volte non vi sembra di vivere in un manicomio? In una sorta di mondo alla rovescia in cui, come diceva Sergio Ricossa, i governi non fanno, ma dovrebbero fare, o fanno, ma non dovrebbero fare. Il gran pasticcio è sempre lo stesso: il governo – che sia di destra o che sia di sinistra non è importante – mette il becco dove non deve e riesce a danneggiare due piccioni con una fava: da una parte i privati e il libero mercato e dall’altra sé stesso e la sua autorità. Risultato: lo Stato, che si arroga il diritto di fornire i servizi che possono essere garantiti e meglio dai privati, ci fa pagare tutto due volte: una volta con le tasse e una volta per poter avere effettivamente il servizio. È così con i trasporti, con la scuola, con la sanità, perfino con la giustizia. Ma la cosa grave, triste e paradossale è che più lo Stato pesa e schiaccia – basti l’esempio degli esempi: il debito – e più è visto dagli stessi Italiani come la soluzione di tutti i mali. Purtroppo, nulla di nuovo sotto il sole. Era già tutto scritto nelle chiare e fresche pagine di Maffeo Pantaleoni.
Correva l’anno 1976 quando Sergio Ricossa pubblicava un’antologia degli scritti di Pantaleoni che oggi la benemerita – un po’ come i carabinieri – Liberilibri di Aldo Canovari rimanda in libreria: Il manicomio del mondo e altre pagine scelte. E tra queste pagine ho scelto fior da fiore: pagina 87 e pagina 179. Nella prima pagina si spiega, appunto, come fare per evitare di continuare a trasformare il mondo in un manicomio. Nel 1920 Pantaleoni fu invitato a Bruxelles – corsi e ricorsi storici ed europei – per presentare un memorandum per il risanamento dell’economia dopo la guerra. La sua risposta fu semplice: i governi devono garantire ordine, contratti e leggi e per il resto far fare a chi sa far meglio degli statali dal momento che ogni volta che un governo s’impiccia di ferrovie, navigazione, porti, commercio, prezzi, lavoro, servizi fa solo danni. Se dal 1920 passiamo al 2019 – 99 anni dopo – la situazione non muta di una virgola: siamo sempre in un manicomio e siamo proprio noi, con i nostri governi che vogliono salvare il mondo, a trasformare il mondo in un manicomio. La soluzione è una sola: “Se i governi cesseranno di ingerirsi di ciò che non li riguarda, in qualunque tempo ciò sia per avvenire, bastano cinque anni perché la situazione economica possa tornare ancora ad essere normale, e se l’ampiezza del loro disinteressamento potesse essere assai vasta, la restaurazione avverrebbe anche in minor tempo”.
Tuttavia, ora come allora, la possibilità che ciò avvenga è molto tenue, perché l’opinione pubblica da una parte e l’abitudine e la potente burocrazia dall’altra – che Weber chiamava “gabbia d’acciaio” – sostengono e praticamente invocano l’intervento del governo. Così Pantaleoni aggiunge tre righe che, se si guarda alla storia del Novecento, suonano come una profezia: “La pubblica opinione è largamente favorevole al socialismo ed al paternalismo e soltanto la povertà, la miseria, le calamità, le sofferenze potranno correggerne la fallace tendenza”.