Il mio nome è Mostro

Romanzo distopico che ha per protagonista una giovane donna, unica sopravvissuta a una catastrofe planetaria.

Traduzione di Carla Maggiori

Pagine 360

ISBN 978-88-98094-68-4

Prima edizione 2020

Il prezzo originale era: 17,00 €.Il prezzo attuale è: 16,15 €.

Collana
Condividi

In un mondo devastato e vuoto, in cui l’umanità è stata spazzata via dalla Guerra e dall’Epidemia, una donna, sola, attraversa quella che un tempo fu la Gran Bretagna. Si è salvata restando chiusa nel De­posito dei Semi di Svalbard, tra i ghiacci del Nord. Poi, a bordo di una barca, ha affidato la sua vita al mare ed è approdata in Scozia. Ora si dirige a sud, verso quella che un tempo è stata la sua casa, convinta che tutti siano morti o rintanati in uno dei Centri di sicurezza ancora integri. Cammina, ricorda e sopravvive. Perché resistere quando sembra non esserci più nessuno?

Il mio nome è Mostro: intervista a Katie Hale, di Cristiano Saccoccia, «Classicult», 27 dicembre 2020.

 

Una trama cesellata nella disperazione e nella desolazione, così appare il gioiello arido di Katie Hale, Il mio nome è Mostro. Un futuro sconfitto dall’epidemia e dalle guerre, è il palcoscenico post apocalittico nel quale compie il suo viaggio di sangue e caligine l’ultimo essere umano sopravvissuto: una giovane donna. Gli stereotipi del genere vengono ribaltati o epurati. Nessuna evoluzione fantastica o incubi lovecraftiani, il mondo dipinto dall’angosciante penna della Hale è la nostra Terra, nel suo crudo realismo, nelle sue verità disincantate. Morte, fame, dolore, il vuoto tutto intorno. Mostro, questo è il nome della sopravvissuta, arranca in una catastrofe personale che si fonde all’apocalisse. Ma un giorno incontra una bambina. Una creatura debole e primitiva, eppure l’unica che ha incontrato nel Nord.

La chiamerà proprio Mostro. Mentre lei sarà la Madre. Dio ha cacciato gli uomini dal paradiso terrestre, Eva non ha visto Adamo. Eva sopravvive con i mostri, i mostri sono forti e non hanno bisogno di dio. Una sofferta Genesi biblica, controcanto della Creazione. Questa la storia che ho assaporato con la sofferenza a languire nel mio corpo. Flashback puntuali modellano il passato dei Mostri, pallide creature assediate dalla società e dalla famiglia. Raffinata ricostruzione di una biografia della malinconia, il dolore come strumento narrativo. Il mio nome è Mostro è una storia potente, uterina, femminista, ma non ricca di falsa retorica. È una ferita che perde pus e sangue. Come un parto difficile. Sullo sfondo di un cielo perennemente assediato dal vuoto della morte una ragazzina e una madre riscoprono cosa significa essere vive, nonostante la fine del mondo. Un romanzo mostruoso, che insegna che la parola “mostro” deriva dal latino, dove indica anche un Prodigio, meraviglia del non-creato.

Con una prosa funambolica che oscilla pericolosamente tra il lirismo evocativo e la grezza rappresentazione visiva, mi sono innamorato di un’esordiente brillante.

Hai sensibilmente cambiato uno stereotipo del genere post-apocalittico, ovvero, hai scritto un “last woman novel” invece di un “last man novel”. Apprezzo molto la tua scrittura, la tua visione del mondo e il tuo lirismo crudo. Volevi scrivere la tua personale (e biografica) apocalisse invece di una catastrofe prevedibile?

Penso che siamo così abituati a film in cui l’unico sopravvissuto è un uomo iper-mascolino, che di solito sopravvive attraverso atti di violenza, quella brutalità che è diventata parte della nostra comprensione culturale di cosa significa sopravvivere. Volevo capovolgerlo – perché mentre Monster non ha paura di usare la violenza se necessario, quello che le permette di sopravvivere è la sua praticità e il suo pragmatismo, insieme al suo allontanamento dalle altre persone. Volevo esplorare quello che diventa importante alla nostra sopravvivenza e successo, una volta che quelle strutture di potere dominate dagli uomini non esistono più: indipendenza, perseveranza, l’abilità di far crescere le cose.

L’epidemia nel tuo romanzo rimane un elemento di sfondo disturbante. Leggere quest’opera durante la pandemia è stata un’esperienza davvero potente, pensi di essere stata un po’ profetica?

Spero di non aver accidentalmente richiamato la pandemia in qualche modo! Ma penso che tutti gli elementi per il declino dell’umanità siano già presenti nella nostra società. Ne siamo consapevoli (cambiamento climatico, malattie, batteri resistenti agli antibiotici, la minaccia di una guerra nucleare) ma il più delle volte guardiamo altrove. Ma parte del ruolo dello scrittore è di esplorare non solo i singoli personaggi e i loro difetti, ma anche guardare alle nostre colpe come specie: come quelle mancanze risiedono accanto ai nostri amori, gioie e relazioni personali, e come navighiamo nel nostro stesso futuro, o nella mancanza di esso.

Niente mostri o strane presente, nessun incubo. Puro realismo sospeso in una terra desolata contemporanea. Qual è la tua relazione con gli elementi soprannaturali della letteratura?

Per me, il soprannaturale è qualcosa che esiste dentro tutti noi. È nelle storie che raccontiamo nelle notti buie – sia per spaventare che per confortare noi stessi. È parte del linguaggio che usiamo per relazionarci con gli altri, per dare senso alla nostra esperienza comune come specie umana. Quindi persino quando non vi è un elemento esplicitamente soprannaturale, come in My Name is Monster, penso ci sia qualcosa di soprannaturale – qualcosa di quasi misterioso – nel modo in cui entriamo in contatto gli uni con gli altri.

Quanto è importante essere un mostro? Quanto è importante essere una madre?

Entrambe le identità riguardano diverse visioni di cosa significa essere una donna, e differenti aspettative del ruolo della donna nella società. Spesso sono presentati come archetipi binari: le donne possono essere sia ‘soft’ e materne, o possono adottare tratti ‘mascolini’ e pensare solo alla carriera – un mostro di ‘successo’. Sono dei binari che esistono nelle fiabe (le splendide principesse contro le streghe malvage) – ma le fiabe sono state tradizionalmente usate come meccanismo per controllare il comportamento delle donne, e nel mondo reale le figura del ‘mostro’ e della ‘madre’ non sono binarie quanto il genere stesso. In My Name is Monster, ‘monster’ arriva a rappresentare il sopravvissuto solitario e indipendente, mentre ‘mother’ riguarda la creazione di relazioni interpersonali di cui abbiamo bisogno per poter sopravvivere emotivamente. Per me, personalmente, sono entrambi elementi necessari per orientarsi nella vita e in tutte le sue difficoltà – come confermato dall’attuale pandemia.

Per contrasti o somiglianze mi hai ricordato vari scrittori, persino alcuni poeti. Chi sono i tuoi mentori o la tua fonte di ispirazione?

In apparenza, My Name is Monster è una rivisitazione di Robinson Crusoe e Frankenstein, quindi è giusto dire che entrambi i libri hanno avuto un’enorme influenza nella scrittura di questo particolare romanzo. Ma sono anche influenzata in modo più ampio da numerosi altri scrittori, inclusi poetesse come Fiona Benson e Liz Berry, entrambe molto interessanti quando si tratta di narrare l’esperienza femminile e rivisitare storie di racconti popolari e mitologici.

Parliamo del tuo stile di scrittura. Spesso molto evocativo, delicato, in altri momenti invece c’è molto dolore, malinconia e smarrimento. Mi piace il tuo stile, è una prosa emozionante. Tu che ne pensi?

Scrivo poesie oltre che narrativa, quindi spero che lo stile del romanzo rifletta alcune di quelle. Il romanzo tratta ampiamente anche il linguaggio, chi può controllarlo e sul potere che il linguaggio ci dà. Il linguaggio può essere usato come strumento di oppressione ma può anche essere sovversivo. Attraverso i diversi approcci di Madre e Mostro al linguaggio, e attraverso le loro diverse voci, ho voluto esplorare come il linguaggio può essere qualcosa di bello e potente, come possiamo perderci in esso e tuttavia usarlo come mezzo di scoperta. Spero che tutto questo sia presente nello stile del romanzo così come nel suo contenuto.

Madri e figli. Volevi scrivere in una Genesi biblica? Una metafora apocalittica di come Eva non ha bisogno di nessun Dio ma di qualcosa per cui combattere?

È interessante che tu abbia scelto l’esempio di Eva e Dio come creato e creatore – specialmente perché in questo caso, semmai, è Adamo quello di cui Eva non ha bisogno, non Dio. Ma quando stavo pensando al ruolo del creatore, stavo pensando più al personaggio di Victor Frankenstein e alla creatura che ha creato (o, come è conosciuto dalla pubblicazione del libro, il ‘mostro’). C’è qualcosa di veramente interessante nel romanzo di Shelley, in cui il personaggio di Frankenstein viene rivelato e sviluppato attraverso le sue risposte alla creatura che ha creato; in altre parole, la creatura creata a sua volta diventa una specie di creatore. È qualcosa che penso ogni genitore abbia sperimentato: come nel crescere un figlio, tu stesso vieni cambiato dalle risposte di quel bambino al mondo. Semmai, la genesi di My Name is Monster è circolare, di creato e creatore in costante simbiosi.

 

“Il mio nome è Mostro”, il primo romanzo di Katie Hale, di Roberta Landre, «Culturificio», 4 dicembre 2020.

 

La mia storia comincia in questo momento. Con me, seduta accanto a una finestra, su un’isola bloccata dal ghiaccio, l’unico essere umano rimasto. Dico che la mia storia comincia qui perché, come si sa, ogni fine è sempre una sorta di inizio. Lo dico anche perché prima di restare sola non esisteva nessuna storia […] Adesso l’intero mondo è la mia storia.”

My name is Monster di Katie Hale è da poco uscito nella traduzione italiana di Carla Maggiori per Liberilibri. In questo racconto distopico veniamo letteralmente scaraventati in un mondo senza tempo e confini, né possibilità di redenzione, dove la protagonista è ciò che rimane della vicenda umana; proprio per questo, il lettore dovrà affidarsi ai suoi ricordi per capire come mai l’umanità si sia estinta.

Camminare è l’unica attività che scandisce il calendario della sopravvivenza della protagonista, una donna che attraverso il flusso dei suoi pensieri ci permette di cogliere il senso della sua esistenza.

Mio padre mi chiamava Mostro. L’idea era che fosse una cosa spiritosa, credo, una specie di scherzo affettuoso. Quando diventai più grande, mia madre cercò di cambiare il nome, ma ormai mi si era fissato addosso […] Penso che ci voglia un mostro per sopravvivere quando nessun altro ci riesce.”

L’intero romanzo si svolge in una tensione costante tra passato e presente, dove l’attualità della sopravvivenza si mescola con il bisogno di trovare una continuità con il passato; non c’è spazio per il futuro, non c’è posto per la speranza. Ogni esperienza è stata per la protagonista una lezione propedeutica alla catastrofe.

Durante la Guerra e la Malattia che la seguì, molte persone concessero troppa fiducia alle persone che amavano. Ma la sopravvivenza ha un costo. Ha sempre avuto un costo, e questo costo è lo stare soli, tagliare fuori gli amici e la famiglia come l’escrescenza di un tumore e cauterizzare la ferita alle loro spalle. E se paghi il prezzo maggiore, riesci a sopravvivere più a lungo, questo è il motivo per cui esisto solo io, e il motivo per cui devo continuare a camminare.”

Nessun contatto umano, né prima della tragedia, né dopo; il fine è la nuda sopravvivenza, mai la vita. Eppure, nel suo vagabondare in cerca di provviste e pace, la voce narrante sembra tradire una malinconia, una sorta di rimpianto per non aver saputo – o forse potuto – vivere accanto agli altri.

Continuo ad aspettarmi di incontrare qualcuno. Non c’è più nessuno, ma continuo ad aspettare qualcuno.”

Lei è Mostro, si è cucita addosso questo nome, l’ha performato fino a diventare un tutt’uno con il suo corpo. Non potrebbe che chiamarsi così: era mostro rispetto ai suoi compagni di classe, a sua madre, ai canoni estetici, e ora che non c’è più nessuno al mondo è Mostro per sé stessa. Mostro nelle due varianti di nome proprio e sostantivo rivela – come suggerisce l’etimo della parola stessa – un “prodigio”, ma denota anche un isolamento, uno scollamento rispetto al tempo e al luogo in cui si vive; è per questa ragione che Mostro sarà l’unica a sopravvivere, grazie alla sua inadeguatezza iniziale.

Tuttavia, se la prima parte del libro ci racconta la prospettiva di una donna isolata, la seconda parte si apre con la ritrovata possibilità di un contatto umano.

Questa creatura è una ragazzina. Un giovane essere umano denutrito e scheletrico. Non dovrebbe esistere. Non può esistere. Una ragazzina che in qualche modo sia sopravvissuta alla Guerra, alla Malattia e all’Ultima Caduta. Una ragazzina che ha resistito.”

Dall’incontro i nomi muteranno, come le voci narranti; Mostro deciderà di chiamarsi Madre e cederà il suo vecchio nome, come fosse un amuleto portafortuna, alla nuova arrivata, che nei capitoli successivi farà da narratrice all’intera vicenda, secondo il suo punto di vista.

Sarò sua Madre, e lei sarà il mio Mostro.”

Katie Hale ha avuto il coraggio di affrontare temi cruciali in un romanzo psicologico appassionato quanto disorientante; scritto nel 2019, Il mio nome è Mostro tocca aspetti fondamentali del nostro presente: la crisi climatica, le categorie sociali, le scelte etiche di ognuno di noi, l’incompetenza politica, ma soprattutto pone al centro della vicenda due donne, in un momento storico dove c’è davvero bisogno di togliere al corpo femminile l’alone di debolezza e incompetenza che, troppo spesso, rischia di farlo soffocare.

I mostri, creature quasi sempre maschili, feroci e pressoché immortali, sono ora dimenticati, non esistono. Quando nel racconto le due donne si incontrano, l’una cede all’altra il suo nome: Mostro è sempre nome proprio. Non esiste mostruosità senza storia, norme e giudizi morali; c’è solo un Mostro che di volta in volta reclama il suo spazio come soggettività, parlando al lettore secondo le sue esperienze.

Non a caso Mostro è sempre immerso nella natura in un modo a noi sconosciuto. Si presenta come un rapporto che ricorda il vivere hobbesiano, con la carne esposta ai pericoli, che riesce però a far emergere il senso della cura e della tensione reciproca tra viventi.

Per quanto si tratti di un romanzo dalle tinte spente e apocalittiche, Il mio nome è Mostro offre un’ottima chiave di lettura per approcciarsi alla condizione contemporanea. Non a caso l’autrice si sofferma molto nel sottolineare i pericoli delle scelte personali e del vivere comune, lasciando intendere chiaramente i limiti della tecnologia.

Stavano tanto vicine ai cosiddetti cari da permettere che alla fine questo li uccidesse.”

Nonostante Hale non potesse sapere della pandemia in corso, il libro rimane un invito a ripensare il nostro modo di vivere, un’esortazione che se fosse un monito – rubando le parole all’autrice – suonerebbe così: «La sopravvivenza porta via tempo». Ci ricorda di rallentare, di essere accurati e minuziosi nelle nostre scelte, collettive e personali.

 

Recensione: “Il mio nome è Mostro” di Katie Hale, di Elisa Raimondi, «Leggere distopico», 18 luglio 2020.

 

In un mondo devastato e vuoto, in cui l’umanità è stata spazzata via dalla Guerra e dall’Epidemia, una donna, sola, attraversa quella che un tempo fu la Gran Bretagna. Si è salvata restando chiusa nel Deposito dei Semi di Svalbard, tra i ghiacci del Nord. Poi, a bordo di una barca, ha affidato la sua vita al mare ed è approdata in Scozia. Ora si dirige a sud, verso quella che un tempo è stata la sua casa, convinta che tutti siano morti o rintanati in uno dei Centri di sicurezza ancora integri. Lei cammina, ricorda e sopravvive. Perché resistere quando non c’è più nessuno? In questo suo pellegrinaggio in cui la sopravvivenza fine a se stessa sembra l’unico obiettivo, incontra una ragazzina senza memoria e senza parola. La chiamerà Mostro, come suo padre faceva affettuosamente con lei. E proseguono insieme il cammino. In un’atmosfera sospesa e desolata, con uno stile essenziale e poetico, Katie Hale racconta due donne perse che portano avanti la vita, gettando così le basi per un nuovo inizio.

Un mondo di devastazione è quello che Mostro vede con i suoi occhi dopo essere uscita dal Deposito dei Semi. Con la consapevolezza di essere, forse, l’unica superstite di un disastro epidemiologico ha un unico obiettivo: tornare a casa e rendersi conto di persona che adesso è rimasta davvero sola al mondo.
All’inizio è tutto un susseguirsi di marcia e perlustrazione, ma intanto ci introduce nel suo io più profondo, ripercorrendo i conflitti di una vita e ricordi non proprio felici. Fino a quando a prendere le redini della narrazione non sarà una ragazzina che ha dimenticato ogni cosa – perfino il linguaggio – e alla quale la donna darà gli strumenti per sopravvivere e le cederà anche il suo nome, nella speranza che, al momento della sua dipartita, qualcosa di lei rimarrà ancora. La “nuova” Mostro è un’adolescente che con spontaneità e grande coraggio, sperimenterà in prima persona il piacere della scoperta. Come una tabula rasa non ha pregiudizi e l’emozione del conoscere le insidie e le meraviglie della natura sarà crescente in lei, provocandole dei moti di ribellione.
Un’ambientazione catastrofista fa da contorno alla storia di due donne e del loro tortuoso cammino. Un cammino tanto fisico quanto attraverso le proprie insicurezze, dove a emergere sarà tutta la loro resilienza. È quando ci troviamo di fronte alla Fine che risaliamo la china e tiriamo fuori il meglio di noi stessi.
Sono le loro voci che, con estrema naturalezza, narrano gli eventi in prima persona e ci raccontano di come, a causa della malattia e della guerra, il genere umano sia stato annientato lasciandole in balia di questo mondo in rovina.

Quella che ci troviamo davanti è una distopia di stampo femen, ma con rimandi alla speculative fiction post-apocalittica.
Di spiegazioni, Katie Hale, ne concede ben poche, preferisce distogliere la nostra attenzione dai come e perché si sia arrivati a questa catastrofe, focalizzandola su quel processo di “rinascita” che dapprima ha inizio quasi per inerzia, ma acquisisce valore pagina dopo pagina.
L’ambientazione periurbana post-apocalittica è ridimensionata per dare il giusto spessore, ma in maniera graduale, a temi come quello dell’accettazione della propria femminilità, del prendere consapevolezza dell’istinto materno che giace sopito in ogni donna, viene anche svecchiato il canonico concetto di “famiglia”.
Un’atmosfera rarefatta di contro a uno stile “pacato” e severo. La penna dell’autrice è intrisa di “misuratezza” e pensieri sobri, anche il silenzio e la staticità acquisiscono un grande rilievo ai fini della narrazione. Non si tratta di un testo che spicca per ritmi concitati o colpi di scena dagli effetti speciali, Hale punta tutto sull’introspezione degli attori principali e sul loro percorso di “rinnovamento”.
La struttura fatta di brevi capitoli rende agevole la lettura, riusciamo a seguirne lo sviluppo con lucidità ed empatia. Due personaggi concreti, ognuno con la propria personalità, che – anche nei momenti di attrito – faranno fronte comune per fronteggiare la solitudine e restare in vita.
Mostro, protagonista della prima parte del libro, si rapporta a questa ignota realtà con una freddezza innaturale, dai suoi pensieri e azioni capiamo che nutre una radicata avversione verso “gli altri”; elemento che ci fa propendere verso l’ipotesi che sia un’antieroina. Vaga meccanicamente tra le macerie, cerca un rifugio, acqua e cibo, sopravvive ma la mente corre al passato e, intanto, persiste nel suo atteggiamento da nomade. Che quel pellegrinaggio sia una scappatoia per tenersi occupata e fuggire da una realtà che non riesce ancora ad accettare?
Tuttavia quando incappa in questa ragazzina, la “nuova” Mostro, la sua corazza d’indifferenza s’incrina e inizia a provare davvero dell’affetto, pur non perdendo mai del tutto quel cinismo che la contraddistingue.
Destreggiandoci in mezzo al parapiglia di pensieri percepiamo che sono due figure femminili forti che, pur vivendo una situazione di disagio, non suscitano compassione né risultano drammatiche eppure riescono a fare breccia nel cuore del lettore.
Un gioco di rimandi profuso di malinconia quel presente fatto di desolazione e poche speranze, sembra specchio di questi ultimi mesi di incertezza dovuti alla diffusione del Covid19.
Katie Hale con questo suo romanzo d’esordio ci regala una storia di rinascita dove non tutto è perduto e la speranza si affaccia come un fuoco che cova sotto la cenere.

 

Il mio nome è Mostro, Katie Hale, di Viviana Filippini, «Liberi di scrivere», 12 luglio 2020.

 

Katie Hale ha pubblicato questo suo romanzo d’esordio “Il mio nome è mostro”, nel 2019. Il libro è arrivato da noi in Italia nel 2020, grazie all’editore Liberilibri, e quello che stupisce è che la trama rientra a pieno nella tipologia del romanzo distopico nel quale la protagonista è, almeno così sembra, l’unica sopravvissuta di una pandemia. Già, di una “Malattia”, perché è così che viene chiamato l’antagonista nella trama della Hale. Un invisibile nemico che ha sterminato il genere umano. Pandemia, malattia, virus, sono termini diventati per noi oggi, ai tempi del Covid-19, vera e propria quotidinità nella quale il mondo è stato catapultato a inizio anno, ma la britannica Hale, già li aveva messi nel suo testo un anno fa, anticipando quella che sarebbe stata l’atmosfera dei nostri giorni. La protagonista è sola in un mondo reso deserto dalla malattia che ha seminato panico e morte. Il luogo dove lei si aggira non ha un’identità precisa, ci sono elementi che fanno pensare alle terre nordiche, ma potrebbe essere ovunque, come qualunque potrebbe essere il tempo nel quale la narrazione si svolge. Chi ci racconta, lo fa dal suo punto di vista, non solo portando a noi lettori la desolazione, solitudine, stato di abbandono di un pianeta che sembra essere uscito da un devastante conflitto bellico. La narratrice-protagonista espone i suoi sentimenti, la sofferenza per avere perso la sua famiglia, il dolore fisico delle ferite infette, la stanchezza del viaggio di ritorno a casa controbilanciati dalla forza, dal coraggio, dalla volontà di farcela a tutti i costi. Elementi che le permettono di procedere in quella che è la sua impresa: tornare alla vita in un mondo tutto da ricostruire. Durante la lettura si intuisce come la giovane stia facendo una lunga traversata dal suo rifugio nelle Svalbard, dove aveva trovato riparo, fino alla casa natia, ma tutto attorno a lei è morte, desolazione e distruzione. Certo è che per la protagonista c’è una inaspettata sorpresa quando trova una ragazzina sola, abbandonata e tremendamente impaurita che lei decide di soprannominare “Mostro”, lo stesso nomignolo che il padre le aveva dato da piccola. Il romanzo dalla Hale è diviso in due sezioni, ed è proprio nella seconda parte che si innesta la narrazione dal punto di vita della seconda sopravvissuta, anche lei alla ricerca di una nuova speranza in un mondo a tratti primordiale, dove i saccheggi hanno svuotato le case dei tanti umani uccisi dalla “Malattia” e lasciato una sensazione di decomposizione costante. Il romanzo di Katie Hale è potente per la sua capacità di aver raccontato una stato di panico, di terrore e di messa in crisi di ogni certezza che noi abbiamo incontrato in modo reale in questo 2020 con lo scoppio del Coronavirus. Il lavoro letterario della Hale è ancora una volta la dimostrazione di quanto il confine tra letteratura, finzione e realtà sia sottile, anzi, a volte la narrativa riesce ad anticipare quello che accade nella vera esistenza del mondo. Quello che mi ha colpito di più è la convinzione della prima sopravvissuta che la solitudine nella quale si trova sia l’unica via di salvezza da ciò che potrebbe annientarla. Una certezza che comincia a traballare un po’ con la scoperta che esiste qualcun altro. Le due ragazze, così diverse per carattere e atteggiamento nei confronti della vita, si rimboccheranno le maniche per un nuovo domani tutto da costruire, anche se non hanno ben chiaro come. Certo è che quelle giovani e la nuova vita che sta crescendo in una di loro, dal mio punto di vista, potrebbe essere vista come la rappresentazione dei due progenitori/progenitrici di una nuova umanità. Traduzione di Carla Maggiori.

 

Il mio nome è Mostro. Il libro distopico di Katie Hale, di Loredana Cilento, «Mille splendidi libri e non solo», 4 luglio 2020.

 

La mia storia comincia in questo momento. Con me, seduta accanto a una finestra, su un’isola bloccata dal ghiaccio, l’unico essere umano rimasto.

Dico che la mia storia comincia qui perché, come si sa, ogni fine è sempre una sorte di inizio.

La britannica Katie Hale esordisce con un libro che letto oggi sembrerebbe annunciare il futuro, Il mio nome è Mostro, pubblicato in Italia da Liberilibri Editrice e tradotto da Carla Maggiori.

L’umanità è stata letteralmente spazzata via prima da una Guerra e poi da una devastante Malattia, un’epidemia che ha risparmiato, apparentemente, solo una ragazza, che dal suo Deposito di semi immerso tra i ghiacciai si appresta a lasciare la Gran Bretagna per raggiungere la Scozia.

Il suo cammino è fatto di ricordi e sensazioni, quelle vissute prima della Guerra e della Malattia, i suoi pensieri vanno ai suoi genitori: il padre la chiamava Mostro, uno scherzo affettuoso, che sa di premonizione, solo un mostro può sopravvivere quando nessuno ci riesce. Ripensa ai loro volti sorridenti, alla gestualità e ai rituali quotidiani, ma i vuoti persistono nella sua mente oramai impegnata a

sopravvivere.

L’immagine delle città lugubremente vuote dove la Malattia ha mietuto le sue vittime come un fuoco purificatore, si stagliano davanti ai suoi occhi, ma soprattutto la Hale riesce a farci immaginare questo enorme palcoscenico di morte e desolazione, rapportandolo a noi come un’eventualità, ma che oggi, con la pandemia non ancora alle spalle, ci si domanda quanto tutto questo potrebbe essere reale.

Lunghi monologhi interiori accompagnano Mostro nel suo viaggio, soprattutto introspettivo, dove a tenerle compagnia sono i ricordi di infanzia, non sempre positivi, ma che la guidano attraverso la Natura che sembra riprendersi il suo posto nel mondo: fuoco, acqua, ghiaccio, la flora e la fauna, sono elementi protagonisti e reali.

Ma la solitudine di Mostro cambierà con l’incontro inaspettato di un’altra superstite dopo l’Ultima Caduta, una ragazzina alla quale insegnerà parole mai sentite da quest’ultima.

Ho deciso di chiamarla Mostro. Voglio che sopravviva, così il mio nome sopravvivrà con lei…La ragazza imparerà a resistere.

Ma mentre per Madre tutto è vuoto, per la nuova Mostro tutto è pieno.

Nel continuum di esistenza, nello scorrere del tempo scandito dal sopravvivere, in cerca di cibo, vestiti e normalità, la percezione cambia e si adegua, ma con uno sguardo al futuro, alla creazione al potere della resistenza nonostante la morte attorno alla loro vita.

E così le due giovani protagoniste ascoltano finalmente, nel silenzio assordante del mondo, il sibilo del vento, lo scorrere delle acque, i piccoli versi dei pochi animali in vita, e dal quello sciabolante silenzio nascerà un altro Silenzio pieno di vita, perché il mondo continua a esistere.

Un esordio quello della Hale eccezionale, che irrompe in un momento pandemico attuale, senza mezzi termini e senza compiacimenti, ci disegna un panorama cancellato, dove tutti si danno la colpa dell’epidemia, che non si arresta, la lotta in cerca di risorse, farmaci, per lasciare il mondo nel silenzio, quello stesso silenzio ascoltato durante il lockdown, quel silenzio chiuso tra le mura di casa, quel silenzio che sembrava senza fine in attesa della Fase 2.

Con il suo stile poetico ed essenziale Kate Hale ci regala un piccolo grande capolavoro.

Katie Hale (1990), britannica, si è laureata in Letteratura inglese alla University of London nel 2012 e in Scrittura creativa nel 2013 alla University of St Andrews. Nel 2019 ha ricevuto la prestigiosa MacDowell Fellowship. Il mio nome è Mostro è il suo romanzo d’esordio.

 

 

 

“Il mio nome è Mostro”. Il romanzo distopico che aveva prefigurato l’apocalisse da virus, di Marianna Rizzini, «Il Foglio», 14 giugno 2020, pag. III.

 

Roma. Nel 2019, quando la quasi trentenne scrittrice e poetessa britannica Katie Hale pubblica in Gran Bretagna il romanzo Il mio nome è Mostro, appena uscito in Italia per Liberilibri, le parole pandemia, isolamento, quarantena appartenevano soprattutto al serbatoio letterario della letteratura e del cinema, genere “distopia”. Letto oggi, il libro di Hale colpisce non soltanto perché parla di un mondo devastato e disabitato dopo il passaggio di quella che viene chiamata soltanto “Malattia”, ma anche perché indaga, senza addolcire e nascondere nulla, che cosa succede all’essere umano quando la sua realtà viene scossa, capovolta, cancellata; e quando i gesti e le abitudini diventano inutili e devono essere sostituiti da altro: istinto, intuito, capacità di adattamento, stupore, speranza, a volte durezza e insensibilità. E oggi, mentre si guarda con un sospiro di sollievo alla fase1 dietro alle spalle, ci si ritrova a riflettere sui temi ricorrenti (paura, reazione, razionalità, follia, ripiegamento, vitalità) di un romanzo che mette in scena il peggior caso possibile: la morte per epidemia dell’intera umanità o quasi, a parte la sopravvissuta protagonista, ragazza al tempo stesso terrorizzata e impavida che, dopo una fuga in barca nel mare nordico, cammina per mesi per brughiere e paesi spettrali, cercando cibo e salvezza, prima evitando poi affrontando le città distrutte dai bombardamenti della guerra che ha preceduto l’epidemia, per ritrovare la strada di casa, pensando di essere totalmente sola, fino a quando non scopre per caso, incredula, l’altro da sé: una ragazzina spaventata e senza memoria a cui darà lo stesso soprannome che le dava suo padre, morto come tutti: Mostro, sinonimo in questo caso di resistenza e creatività. In uno scenario rovesciato rispetto all’apocalisse de La strada di Cormac McCarthy – lì un padre e un figlio che devono sopravvivere tra pericoli e predoni, qui una madre e una figlia “di fatto” sospese in un nulla angoscioso – la ragazza rimasta in vita nonostante tutto impara ad arrangiarsi “come nella preistoria”, anche se le sue dita, stringendosi in tasca per il freddo, cercano ancora istintivamente il cellulare, diventato inutile dopo il crollo generale dei server.