Apologia della cattiveria

L’autodifesa della cattiveria dalle accuse ingiuste e l’opportunità di scagliarsi contro gli sfruttatori solidaristi e buonisti

Pagine 60

ISBN 88-85140-56-4

Prima edizione 2003

Seconda ristampa 2004

Il prezzo originale era: 8,00 €.Il prezzo attuale è: 7,60 €.

Esaurito

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La cattiveria ha molti detrattori, né potrebbe essere diversamente. Se lo merita nella mag­giore parte dei casi. Talvolta un po’ meno. In questo libello l’Autore dà la parola alla cattiveria, offrendole l’opportunità di difendere se stessa da ac­cuse ingiuste, e di presentare le sue “buone” ragioni contro i professionisti della bontà: solidaristi e buonisti di ogni colore, che sfruttano i nobili sen­ti­menti umani a fini politici. Essa, nella sua autodifesa, tenta anche di smontare un consolidato errore di persona che fa confondere la cattiveria con qualche cosa che può somigliarle, ma che non ha nulla a vedere con lei. E solo non dimenticando che la vita umana si regge su due diversi codici morali – il privato e il politico – si eviterà di scambiare per cattiveria quel che invece, il più delle volte, è “buon governo”.

Cattivo cioè capace di governare di Paolo Marini, «Cultura Commestibile», 10 maggio 2014, pag. 12

Non pare che la bontà sia una virtù, in politica; tanto di meno il buonismo. Di più, si osservi “quante volte la decadenza di una comunità è accompagnata dal diffondersi di idee e ideologie umanitarie, buoniste, politically correct: spesso l’agonia – e la morte – di quella è consolata dalle nenie delle prefiche buoniste”. Il virgolettato è di Teodoro Klitsche de la Grange ed è contenuto nella sua molto giusta – ancorché non nuova – Apologia della cattiveria (Liberilibri, 8 euro). Rispondiamo a questa domanda: se si deve scegliere qualcuno per fare i nostri interessi chi si eleggerà, un sant’uomo oppure un uomo capace? Premessa la distinzione (per nulla ovvia, purtroppo) tra sfera privata e ambito pubblico, nel secondo sarà la (diciamola pure così) ‘cattiveria’ a dover signoreggiare e questo libello potrebbe dirsi rivolto sia a coloro che non sopportano l’ipocrisia dei politici usi alle finte attenzioni e alla bassa retorica (essi sì, veri ‘cattivi’, in quanto prigionieri – secondo l’etimo dell’attributo – dell’imperativo di compiacere ad ogni costo un preteso senso comune per fini di consenso elettorale) sia a quei politici stessi, che hanno/avrebbero con ciò un’occasione di più per ripensare, con le proprie responsabilità, l’enorme divario tra una politica dei ‘fatti’ e una della ‘facciata’ (essendo quest’ultima quella che, in particolare nell’oggi, sembra costare di meno e rendere tanto di più). Sono anche d’accordo con l’Autore che la politica non è materia di “necessità” e di “assoluti”, bensì di “libertà” e di “relativi”. Non c’è un bene sommo da raggiungere, ci sono soltanto delle scelte da assumere – spesso dolorose – e rendere così un buon servigio ai governati. Ed è vero che un certo modo di gestire il potere, oltre alla condiscendenza popolare di cui spesso si giova, sono anche il segno di un tempo nel quale la razionalità e la fiducia sono divenute risorse scarse e l’abitudine ad un benessere sempre più artificiale o illusorio, nonché ad aspettare/pretendere soluzioni dall’alto, hanno indotto i più in una sorta di torpore che diviene avvilimento. Da esso ci si scuote soprattutto per tifare l’uno o l’altro dei contendenti, partecipando dal basso ad una contrapposizione che il potere, dietro la cortina fumogena delle recite a copione, in realtà non conosce. Sinceramente vorrei  (presumo con Klitsche de la Grange) che questo misero ancorché rumoroso e, talora, scintillante teatro fosse semplicemente scalzato dalla scena essenziale e talvolta cruda della realtà, in quanto affrontata da uomini cattivi e antipatici, del tutto refrattari alle sirene dell’adulazione e dell’applauso.