Mai finora tradotto e commentato in Italia, l’Act of Union anglo-scozzese del 1707 è il documento costituzionale che rivela su quali concrete basi sia fondato quel dualismo di ordinamenti politici, di istituzioni di governo e di orientamenti politici, intellettuali e religiosi che fin dall’immediato indomani della “Gloriosa Rivoluzione” ha caratterizzato il Regno Unito di Gran Bretagna. Si può anzi dire che la Gran Bretagna sia nata come grande aggregato statuale proprio in virtù dell’Unione dei due parlamenti d’Inghilterra e di Scozia. In tal modo, avendo posto in piena evidenza la centralità della questione parlamentare nella costruzione del nuovo Stato, si rendeva definitiva l’egemonia delle istituzioni inglesi sull’intera area delle Isole britanniche e nel contempo si delineavano i caratteri di una “unione senza uniformità” basata sul riconoscimento delle istituzioni scozzesi pre-unitarie. Queste istituzioni hanno conservato la loro vitalità fino a rendere possibili, in tempi a noi più vicini, la realizzazione della devolution e con essa il ripristino a Edimburgo di un’assemblea parlamentare e di un esecutivo autonomi, sprigionando le forze del nazionalismo politico che oggi aspira all’indipendenza. Come argomenta James G. Kellas, tra i massimi studiosi del sistema politico della Scozia e del riformismo nazionalista, tutto nasce con l’Unione: momento costituzionale non privo di vistose contraddizioni, esposto a interpretazioni discordi e da alcuni contestato perfino nella sua intrinseca legittimità, che tuttavia, non senza avere posto le premesse dello sviluppo della grande stagione dell’Illuminismo delle università di Edimburgo, Glasgow, Aberdeen e St Andrews, rendeva la Scozia una componente essenziale dello Stato britannico unitario e la immetteva nella modernità costituzionale.
Act of Union [1707]
Traduzione di Fabio Del Conte Alessandro Torre
Introduzione di James G. Kellas
Testo a fronte
Pagine XXXVI-72
ISBN 978-88-98094-13-4
Prima edizione 2014
Non sparate sugli Scozzesi: l’autodeterminazione è il primo diritto dei popoli di Corrado Ocone, «Huffington Post», 17 settembre 2014
Comunque andrà a finire, in Scozia domani 18 settembre vincerà la democrazia. Nessuno dei commentatori italiani dice infatti la cosa più semplice, quasi un’ovvietà: il diritto alla propria autodeterminazione è il primo di ogni popolo e di ogni comunità politica. Non c’è un diritto all’indipendenza, nemmeno per il popolo scozzese, ma non c’è nemmeno un diritto all’unità, casomai paventando chissà quali catastrofiche conseguenza anche per l’Europa, come ha fatto Enrico Letta sulla prima pagine del “Corriere della sera”. Né, nel caso scozzese, ci sono partiti antisistema, quelli che per pigrizia definiamo “populisti”, che vogliono giocare allo sfascio.
Lo Scottish National Party, il partito di maggioranza al parlamento di Edimburgo, nonché il principale promotore di questa consultazione popolare, è un partito serio, socialdemocratico, persino statalista per i suoi programmi. E, pur contando nella consultazione il tema dell’identità culturale, di cui gli scozzesi giustamente vanno orgogliosi, il primo motivo per cui viene chiesta oggi l’indipendenza è economico. Anzi, nasce quasi da un azzardo: l’idea di credere di potersi trasformare in poco tempo in un’isola di benessere, una sorta di grande Dubai del Nord Europa (e il paragone regge viste le enormi risorse petrolifere presenti nel Mare del Nord).
Ecco, probabilmente, se fossi uno scozzese, avrei molti dubbi anche io, ma alla fine forse voterei per restare nella Gran Bretagna. Quello che è sicuro è che non ne farei però una battaglia ideale, di principio, epocale. Non esorcizzerei una eventuale vittoria del si come il trionfo del male o come il realizzarsi di una tragedia irrimediabile. Mi porrei, come proprio come fa la maggioranza dei britannici, in modo molto più laico la questione dei pro e i contro, economici soprattutto, e valuterei se è meglio vivere in una piccola e ricca isola felice del Nord, il che è comunque tutto vedere essendo il futuro anche condizionato da fattori esterni oggi difficilmente prevedibili, oppure avere forse qualche ricchezza in meno ma un ruolo e un’influenza mondiale comunque notevoli. E, soprattutto, giocati in nome dei valori dell’Occidente e della libertà, anche economica. Soprattutto, non avrei paura del referendum, che comunque è, in questo caso più che in altri, una affermazione di quella libertà, quell’energia, quella vitalità e voglia di mettersi in discussione che è propria dei grandi popoli che ci hanno dato la libertà. E quello scozzese, insieme all’inglese, è sicuramente Stato negli ultimi trecento anni all’avanguardia su questo terreno.
Pur senza rimpiangere mai il passato, che è sentimento antivitale come ci ha insegnato Nietzsche, nelle urne terrei conto anche di questo aspetto, cioè di una storia gloriosa e dopo tutto recente. C’è un famoso libro dello storico scozzese Niall Ferguson, intitolato Impero, che ha un sottotitolo esplicativo: Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno. Che ci piaccia o no, quella grammatica fatta di parlamentarismo, libertà individuale, libero mercato, rispetto dell’individuo in ogni forma, che è la grammatica della nostra civiltà è nata per l’azione congenita, politica e culturale insieme, svolta da inglesi, scozzesi e irlandesi negli ultimi trecento anni. Una entità politica tutto sommato piccola per dimensioni qual è stata la Gran Bretagna, fondata su valori atipici come quelli che si son detti, ha trovato la forza di dominare il mondo e di trasmetterli ad esso. E qui, fra i britannici, non è lecito fare differenze fra inglesi o scozzesi.
L’amalgama ha funzionato molto bene da quel giorno del 1707 in cui, con l’Act of Union (ripubblicato in questi giorni dall’editore Liberilibri di Macerata), i due popoli misero in comune le loro sorti. Nulla è eterno e anche questo vincolo lo si può spezzare se una delle parti ritiene che così convenga. Quello che però mi preme di dire che, soprattutto al tempo e nella patria della democrazia liberale, la decisione può essere presa solo dagli stessi cittadini.