Nazionalismo

Storia intellettuale e politica di un’ossessione ideologica: dalle sue radici culturali alle sue ripercussioni.

A cura di Alberto Mingardi

Pagine 324

ISBN 979-12-80447-03-6

Prima edizione 2021

Il prezzo originale era: 20,00 €.Il prezzo attuale è: 19,00 €.

Esaurito

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Nationalism, scritto nel 1960 e ancora perfettamente attuale, rappresenta un classico del pensiero politico contemporaneo.
Mai tradotto in italiano prima d’ora, è forse la più originale analisi del nazionalismo, dal punto di vista della sua storia intellettuale e politica, della sua emersione e affermazione a partire dalla Rivolu­zione francese, delle sue radici culturali e delle sue ripercussioni.
La presente edizione include anche l’Introduzione alla quarta edizione che l’autore scrisse nella primavera del 1992, poco prima di morire improvvisamen­te.
Kedourie rintraccia e mette allo scoperto, con una chiarezza e un’eleganza argomentativa impareggiabili, le origini di questa corrente ideologica che tanta influenza, spesso nefasta e distruttiva, ha avuto e continua ad avere nel mondo. Egli ci consegna un testo prezioso per comprendere l’architettura ideologica di quel nazionalismo che ciclicamente si riaffaccia nella storia dei Paesi occidentali e non solo.

Da Bagdad a Londra, Elie Kedourie indaga le origini del nazionalismo, di Fiona Diwan, «Bet Magazine Mosaico», 26 gennaio 2022

 

Tra i consiglieri del premier Margareth Thatcher negli anni Ottanta, di origine irakena, Kedourie fece le spese del più nefasto e distruttivo nazionalismo arabo. Un’analisi, la sua, tra le più originali e sorprendenti. Di lui si parlerà il 1 febbraio al Centro Brera

«Un’ideologia nazionalista non è di per sé una garanzia di prosperità, di buongoverno e men che meno di onesto governo», scriveva nel 1992 Elie Kedourie, filosofo politico e storico delle idee. E aggiungeva: il Nazionalismo non produce felicità né realizzazione spirituale, e nemmeno prosperità materiale ma, al contrario, un’oppressione mai sperimentata e una miseria senza pari.

Ma come e quando nasce la nozione di Nazionalismo? Perché a partire da Kant e Fichte, l’Occidente si innamora dell’idea di autodeterminazione nazionale? Perché diventa un fenomeno così generale e onnipresente sia nel XIX sia nel XX secolo? A queste e altre domande cerca di rispondere Elie Kedourie, docente dal 1953 al 1990 alla London School of Economics di cui esce oggi in italiano l’interessantissimo saggio Nazionalismo (Liberilibri, pp. 195, 20,00 euro).

Dal crollo della Jugoslavia al collasso dell’Unione Sovietica fino ai moderni Stati arabi nati nel Novecento, dal Caucaso all’Asia Centrale, Kedourie avanza una teoria che è anche un resoconto storico del nazionalismo come dottrina politica, come ideologia e nozione da analizzare e mettere in discussione.

Ma dietro ogni teoria c’è una biografia, fa notare Alberto Mingardi, il curatore del volume e docente di Storia delle dottrine politiche allo IULM di Milano, a cui dobbiamo la cura e la traduzione del testo. È Mingardi stesso, nel suo mirabile e decisivo saggio introduttivo, a raccontarne l’avventura umana e intellettuale. Nato il 26 gennaio 1925 a Bagdad col nome di Eliahou Abdallah Khedourie, il giovane Elie cresce in un’agiata famiglia sefardita che discende in linea diretta e ininterrotta dagli ebrei deportati a Babilonia da Nabucodonosor nel 597 AEV.

Negli anni Quaranta, gli ebrei a Bagdad sono una presenza prospera, radicata, numerosa, 118.000 persone, un quarto della popolazione cittadina. La Bagdad ebraica è al passo con i tempi, vanta un’èlite culturale prestigiosa e all’avanguardia, il milieu intellettuale ebraico brulica di proposte e stimoli europei.
Il Farhud, il pogrom nazionalista del 1-2 giugno 1941 e le leggi infami che seguiranno, cancelleranno una presenza ebraica antica di 2500 anni traumatizzando tre generazioni di ebrei che abbandoneranno tutto, retaggi culturali, case e palazzi, negozi e rigogliose attività.

Kedourie fugge a Londra nel 1947. Ha 22 anni, è un fuoriclasse. Studia come un forsennato, inizia a scrivere, diventa docente alla London School of Economics, manda alle stampe libri fondamentali come England and the Middle East, Nationalism, Islam in the Modern World (1980). E poi Il labirinto anglo-arabo, considerato il libro-capolavoro del Kedourie orientalista (1976), testo in cui lo studioso butta giù dal piedistallo la figura di Lawrence d’Arabia, ridimensiona il senso di colpa dell’Occidente verso la propria presunta “rapacità coloniale” e rilegge in controtendenza, rispetto alla storiografia dell’epoca, l’accordo Sykes-Picot. Ma soprattutto, diventa uno tra i vari maitre a penser del governo conservatore di Margareth Thatcher, negli anni Ottanta, perfettamente immerso nel dibattito storico del momento: Elie Kedourie insieme a Lewis B. Namier sarà un fiero oppositore di Arnold Toynbee e di qualsiasi “teoria della storia”. Inoltre, Kedourie introduce la nozione di “dispotismo orientale”, sottolinea l’importanza della dimensione religiosa per la storia del pensiero politico, rivisita e storicizza la dottrina del nazionalismo, una nozione tanta nefasta quanto variegata nelle sue diverse formulazioni.

 

 

La nazione è un individuo che vuole autogovernarsi, di Francesco Perfetti, «il Giornale», 26 gennaio 2022, pag. 23.

 

Le nazioni si fondano su memorie o motivi etnici premoderni o addirittura antichi. Tuttavia il concetto di nazione è moderno ed è frutto del Romanticismo. Sul terreno politico rappresenta la risposta dell’età romantica alle tendenze razionalizzanti, universalizzatrici e cosmopolitiche dell’Illuminismo che si proponevano di individuare leggi valide per tutti i popoli, per tutti i tempi, per tutte le situazioni.

Almeno fino al XV secolo le nazioni culturali e linguistiche non avevano valenze politiche. L’accostamento graduale fra valori politici e valori linguistico-culturali cominciò a manifestarsi con la formazione degli Stati nazionali ad opera delle grandi monarchie: nazione e Stato si svilupparono attorno al re. La persona del sovrano e la monarchia incarnavano la nazione simboleggiando l’unità morale del paese, mentre si edificava lo Stato nazionale. Dopo la Rivoluzione francese, sull’onda del Romanticismo, il concetto di nazione sconfinò sempre più dal terreno della cultura a quello della vita pubblica. E la «passione nazionale», prima sconosciuta, divenne il motore del secolo. Alla politica settecentesca, tutta equilibrio e razionalità ovvero ponderazione e calcolo, subentrò questa «passione» capace, divampando, di associare il concetto di nazione a quello di patria e persino di sacralizzarlo.

Nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo, all’indomani della conclusione del conflitto franco-prussiano del 1870, mentre maturava il passaggio dall’epoca delle nazionalità a quella dei nazionalismi, si sviluppò un dibattito sull’idea di nazione. Lo storico tedesco Teodoro Mommsen rivendicò il diritto della Germania ad annettere l’Alsazia perché abitata da popolazione di razza e lingua tedesca, mentre un altro storico francese, Numa-Denis Fustel de Coulanges, contestò tale tesi sostenendo che per individuare e definire l’essenza di una nazione non contavano né la razza né la lingua ma piuttosto la comunanza di ideali e interessi, affetti e ricordi. Anni dopo, poi, nel 1882, ancora uno storico, Ernst Renan, sostenne che la nazione doveva essere vista come «un plebiscito di ogni giorno». Tale dibattito mise a confronto due concezioni della nazione: l’una esaltante i vincoli comunitari e l’appartenenza a un gruppo etnico-linguistico, l’altra privilegiante il processo di aggregazione di fedeltà individuali.

Sul legame fra nazione e nazionalismo (o, in qualche caso, nazional-imperialismo) e sull’accostamento fra il concetto di nazione e il concetto di Stato la storiografia si è divisa. Per alcuni studiosi esiste una direttrice che collega direttamente la nazione al nazionalismo e questo all’imperialismo e al totalitarismo. Per altri, al contrario, tale esito non è affatto obbligato perché, per esempio, nella tradizione liberale europea è stato possibile coniugare la libertà con la nazione al punto che, in qualche caso, quest’ultima è stata vista addirittura si pensi alla stagione della cosiddetta «rivoluzione delle nazionalità» come una modalità di realizzazione della libertà.

Comunque sia, le analisi sulla natura del nazionalismo e sulle sue possibili tipologie da parte non soltanto di storici ma anche di sociologi e politologi si sono susseguite nel tempo nel tentativo di giungere a una teorizzazione generale del fenomeno. E oggi, in tempi di «sovranismo» più o meno strisciante, l’interesse per questo tema è andato crescendo. Dagli studi pionieristici di Hans Kohn che presentava il nazionalismo come una specie di perenne manifestazione di psicologia collettiva fino ai più articolati e raffinati lavori di Anthony D. Smith che ne individuano e analizzano il collegamento con le etnie pre-moderne, la ricerca ha fatto molti passi avanti.

In questo quadro, un approccio certamente originale è quello di Elie Kedourie con il suo volume Nazionalismo (pagg. CXVIII-206, euro 20), che, pubblicato originariamente nel 1960, appare finalmente in traduzione italiana per la casa editrice liberlibri a cura di Alberto Mingardi che vi ha premesso uno splendido saggio introduttivo. Quasi sconosciuto in Italia, Elie Kedourie (1926-1992) è stato un importante studioso di storia del Medio Oriente e di storia del pensiero politico e ha insegnato soprattutto alla London School of Economics dove fece parte del gruppo di intellettuali raccolti attorno al filosofo politico Michael Oakeshott che aveva trasformato quel «tempio del riformismo» in un cenacolo liberal-conservatore. Nato a Bagdhad ed esponente della comunità ebraica, Kedourie abbandonò il paese d’origine quando, tra l’ultimo scorcio degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta, si ebbe una sorta di emigrazione di massa degli ebrei, molti dei quali si trasferirono in Palestina. Lui invece questo giovane schivo e di poche parole, lettore voracissimo e di eccezionale vivacità intellettuale scelse la Gran Bretagna dove concluse i suoi studi universitari e dove fece la sua carriera diventando uno dei maggiori specialisti del Medio Oriente.

Quando si accinse a scrivere il volume sul nazionalismo (che ebbe in Gran Bretagna più edizioni e suscitò polemiche) Kedourie aveva in animo un progetto preciso, quello di presentare il nazionalismo, appunto, come una «dottrina politica», cioè «un complesso di idee interrelate circa l’uomo, la società e la politica». Questo approccio, sostanzialmente di storia delle idee, presupponeva che il nazionalismo non fosse un «sentimento inarticolato e potente, presente sempre e ovunque» e che, neppure, fosse «un mero riflesso di particolari forze sociali ed economiche. Non a caso il saggio si apre con una dichiarazione precisa: «Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del Diciannovesimo secolo» la quale ritiene «che l’umanità sia divisa naturalmente in nazioni, che tali nazioni siano conosciute in virtù di certe caratteristiche che possono essere verificate e che l’unico tipo legittimo di governo sia l’autogoverno nazionale». È una definizione, in apparenza semplice, che, in realtà, cela implicazioni precise e profonde quale, per esempio, il rifiuto dell’approccio interpretativo di tipo marxista.

Ha fatto discutere (e in qualche caso ha scandalizzato) il fatto che Kedourie sostenesse che nel pedigree del nazionalismo, come teoria politica, vi sia la dottrina kantiana della legge morale e dell’autodeterminazione, pur attraverso la mediazione di alcuni discepoli di Kant a cominciare da Joahnn Gotlieb Fichte il cui nome è legato ai Discorsi alla nazione tedesca. Egli però ha avuto buon gioco a dimostrare come, al di là delle intenzioni kantiane, esistesse un sottile filo diretto fra l’idea dell’autodeterminazione individuale e quella dell’autodeterminazione nazionale che è, poi, alla base del nazionalismo propriamente detto. In un certo senso le sue tesi anticipano le considerazioni del grande pensatore liberale Isaiah Berlin che in un suo saggio raccolto nel volume Il senso della realtà (Adelphi) avrebbe parlato di Kant come «fonte poco nota del nazionalismo».

Il volume di Kedourie non è soltanto un saggio teorico importante sul concetto di nazione e sul nazionalismo, ma è anche, negli ultimi capitoli, un tentativo di analizzare le circostanze che hanno favorito la diffusione di tale teoria e le conseguenze che essa finì per provocare nelle classi politiche e intellettuali, europee e non soltanto. È, soprattutto, un grande libro che richiama alla mente una bellissima opera di un altro storico conservatore, Lewis Namier, La rivoluzione degli intellettuali (Einaudi), che probabilmente Kedourie non conobbe di persona ma certamente apprezzò. E, al tempo stesso, è una guida preziosa per capire l’architettura ideologica di una teoria politica, quella del nazionalismo, che, ancora oggi, pur nell’epoca della globalizzazione e del multilateralismo, finisce per avere, nel bene e nel male, un peso non da poco.

 

Nazionalismo di Elie Kedourie, «La Ragione», 5 gennaio 2022

 

Difficile trovare una riflessione altrettanto profonda su un tema che cambia segno e colore a seconda della bocca che anche solo lo pronuncia, oscillando fra i nobili ideali patriottici e i più aggressivi pregiudizi. Il tutto impreziosito dalla traccia plurimillenaria che l’introduzione suggerisce fin dalla prima pagina. L’autore, a lungo professore di storia e filosofia alla London School of Economics, era nato a Baghdad, nel 1926. Morì a Washington nel 1992. Si suol dire, di certi studi e riflessioni, che benché datati siano ancora d’attualità. Qui la faccenda è diversa: a essere rimasto attuale è il tema che sviscera e chiarisce, mentre il suo libro supera l’attualità, perché è una chiave indispensabile per capirla.

Non nacque in Iraq per caso, ma perché lì viveva la sua famiglia. Da millenni, in un certo senso. Gli ebrei vi giunsero nel 597 avanti Cristo. Lì rimasero e prosperarono, anche quando quella terra divenne parte dell’impero ottomano, che con gli ebrei si mostrò tollerante. Poi accadde che per batterlo gli inglesi – in particolare a opera del colonnello Lawrence – sollecitarono il sorgere di un nazionalismo arabo, anti imperiale. Alla caduta dell’impero crearono un Paese inventato e lo tennero assieme con il nazionalismo. Il che scatenò un panarabismo che divenne anche antisemita. Ed ecco il volto del nazionalismo rozzo e feroce.

Proprio le storie e le guerre del secolo scorso suggeriscono oggi di non evocarlo più con quel nome, risultando difficile ritrovarne le radici romantiche e patriottiche, sicché si preferisce “sovranismo”. Ma la zuppa è quella. Solitamente cotta a cura di classi dirigenti mediocri e sollecitando sentimenti xenofobi. Sangue, terra e nazione – ovvero presunta identità collettiva da contrapporre a quella altrui – hanno più che altro fatto perdere molto del primo. Si può avere una forte identità senza per questo supporre di dovere negare l’altrui. Anzi, più le identità sono forti e più convivono. Sono quelle fasulle, quelle montate ad arte, a generare guerre. Fino a far sparire le identità individuali in una presunta identità collettiva, il che dischiude le porte all’orrore del dispotismo.

 

Cosa significa nazionalismo, di Francesco Magris, «Corriere della sera», 14 dicembre 2021, pag. 43

 

Da anni il processo d’integrazione europea deve fare i conti con la forza reattiva rappresentata dai rigurgiti di nazionalismo presenti all’interno di alcuni Stati. «Nazionalismo», che oggi trova una nuova declinazione linguistica nel termine «sovranismo», è una parola utilizzata in senso dispregiativo dal pensiero progressista ed europeista per sottolineare il carattere regressivo delle pretese identitarie, in particolare di una certa destra. Tuttavia tale pensiero a volte non resiste dalla tentazione di perorare un progetto geopolitico ispirato al principio di autodeterminazione dei popoli, in quanto evocativo di lotte nazionali contro gli oppressori di turno. Si pensi al conflitto israelo-palestinese, alla questione curda e pure a una certa simpatia riservata all’indipendentismo catalano il cui leader, condannato da un regolare tribunale spagnolo, forse non a caso ha trovato asilo politico proprio nel Paese simbolo dell’Ue, il Belgio.

Questo bipolarismo normativo del nazionalismo rischia di confondere e distorcere l’analisi da una valutazione oggettiva della sua genesi, del suo significato e delle sue ricadute storiche. Un’affascinante e convincente ricostruzione storica e ideologica del fenomeno ci viene offerta dal filosofo politico Elie Kedourie nel libro Nazionalismo (Liberilibri), pubblicato originariamente in inglese nel 1960 e oggi tradotto in italiano da Alberto Mingardi, cui si deve pure un ampio e coinvolgente saggio introduttivo.

Kedourie nasce a Baghdad nel 1926, membro della comunità ebraica, al tempo dell’Impero ottomano numerosa, fiorente e convivente in armonia con le componenti sunnite, scite, curde e cristiane della città. Col crollo dell’Impero e l’avvento del panarabismo, sobillato dalle potenze occidentali illuse di farne uno strumento geopolitico a loro favore, Baghdad si svuota dei suoi ebrei i quali fuggono in Palestina, Europa, Usa. Kedourie sceglie Londra, si laurea in Storia e Politica alla London School of Economics dove in seguito diventa professore. A Londra si unisce ad un gruppo di intellettuali «conservatori», anche se il termine «conservatore» non va inteso nel suo caso come un atteggiamento scettico nei confronti del progresso dell’umanità ma piuttosto, spiega felicemente Mingardi, come un’«inclinazione» che comporta un continuo esercizio dialettico e di «reattività» in funzione dei piani rivali. Questo non significa che sia assente un preciso progetto politico che per Kedourie consiste nella costante lotta volta a «proteggere interessi dispersi nella società e preservare l’assetto pluralistico dalle intrusioni del potere». Kedourie muore nel 1992, non troppo prematuramente per non assistere al crollo dell’Urss.

Per Kedourie il nazionalismo non va relegato a un sentimento rozzo e inarticolato da sempre e ovunque latente nell’animo umano, ma è l’esito di un preciso percorso filosofico che lo erge dunque al rango di vera «dottrina». Rifiutando pure l’approccio marxista che lo vorrebbe quale «mero riflesso di particolari forze sociali ed economiche», la sua genesi per Kedourie affonda nella dottrina kantiana della legge morale interiore cui spetta in esclusiva il compito di giudicare e di giudicarsi. L’autolegislazione dell’io si converte dunque in autodeterminazione del soggetto in conformità con la sua natura più autentica. Questo richiede tuttavia un continuo innalzamento degli obiettivi perseguiti e dunque una continua lotta interiore per la propria autoaffermazione, lotta che, come sostengono i romantici, diventa lo scopo ultimo dell’agire umano, ossia da mezzo si converte in fine.

Col pensiero neo-kantiano – in particolare quello di Fichte – si fa strada l’idea che il potenziamento dell’autodeterminazione dell’io richieda un’espansione di quest’ultima a livello collettivo, ossia l’autodeterminazione della «nazione». Sorge tuttavia a questo punto il problema di individuare un criterio che permetta di catturare il concetto ancora vago di «nazione». Kedourie rintraccia tale criterio nell’omogeneità culturale, che a sua volta può essere razziale, religiosa e linguistica. Tuttavia, ispirandosi in particolare all’esperienza tedesca, per Kedourie è l’omogeneità linguistica quella che conferisce maggiore coesione e senso d’identificazione fra gli uomini. I confini degli Stati nazionali devono allora riprodurre quelli linguistici e la «lingua madre» deve venire preservata dalle sue contaminazioni che in quanto «imitazioni» si contrappongono all’«autentico». Non deve dunque stupire la rivendicazione romantica delle superiorità del tedesco dovuta al suo carattere «originale» rispetto alle lingue «derivate» come quelle neolatine, in particolare il tanto odiato francese.

Nasce in tal modo il concetto di «nazione» e la lotta per l’autodeterminazione da individuale si fa collettiva, di popolo. L’omogeneità culturale quale base del sentimento nazionale conduce pure ad una «politicizzazione» dell’arte e delle cultura, le quali devono ora essere messe al servizio della «causa nazionale». La stessa soggettività individuale viene subordinata all’appartenenza allo Stato, che diventa «organico»: l’individuo, al di fuori di quest’ultimo, non è più nulla, come una foglia recisa dal suo ramo. Come osserva Mingardi, a partire dal Settecento il nazionalismo si converte allora quale filo conduttore della storia europea: dalla Rivoluzione francese, al crollo degli Imperi, dalla marcia su Roma al Reich millenario, fino alla dissoluzione dell’Urss e alla guerra civile jugoslava.

Oggi, in piena turbo-globalizzazione, forse il criterio dell’omogeneità culturale è paradossalmente esteso a nuovi e inediti tratti identitari che tracciano nuove frontiere più labili e meno visibili, ma non per questo meno divisive. In questo senso, il concetto elastico e dinamico di nazionalismo proposto da Kedourie, aldilà di una sua velata nostalgia per i vecchi Imperi caratterizzati, secondo lui, da un maggiore cosmopolitismo e tolleranza, si rivela molto utile per cogliere alcuni aspetti cruciali dell’attualità.

 

Il miglior libro per capire il nazionalismo di oggi è stato scritto nel 1960, di Sergio Belardinelli, «Il Foglio», 4 dicembre 2021, pag. 2

 

È sicuramente uno dei libri più belli che ho letto sul nazionalismo. Una rara capacità di combinare filosofia, politica e storia si associa a un linguaggio sempre cristallino anche quando vengono affrontate le questioni più intricate. Per non dire del realismo che lo pervade in ogni pagina, senza mai una sbavatura ideologica. Sto parlando di Nazionalismo, il libro dElie Kedourie, pubblicato nel 1960, in questi giorni in libreria grazie a Liberilibri con una magnifica introduzione di Alberto Mingardi: un affresco sulla vita e l’opera dell’autore che, movendo dal suo ebraismo e dalla sua città natale, Baghdad, passando per Londra, dove Kedourie ha studiato e insegnato (la London School of Economics), ci racconta uno spaccato avvincente della storia intellettuale di un’epoca.

Nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino leggiamo che “il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa”. Ecco, secondo Kedurie, il prerequisito della dottrina nazionalista, preparato dall’idea illuminista che la politica dovesse cambiare la società secondo un preciso disegno razionale e che la rivoluzione francese aveva clamorosamente dimostrato come realizzabile. Se “il principio di ogni sovranità  risiede essenzialmente nella Nazione”, è ovvio che la nazione cessa di essere semplicemente il luogo dove siamo nati e diventa invece un grimaldello capace di scardinare qualsiasi ordine politico che non abbia nel principio nazionalistico il suo criterio di legittimità. Come dice Kedourie, la volontà nazionale spinge per sua stessa natura all’estremismo; diventa molto più importante di qualsiasi patto o trattato. Non a caso i sovrani europei del Diciannovesimo secolo finiscono per diventare tutti degli usurpatori ai quali non è più dovuta alcuna obbedienza; le relazioni internazionali si surriscaldano; si accendono le rivalità etniche; l’arte e la letteratura diventano strumenti di lotta politica; la lingua, vedi Herder e Fichte, diventa addirittura la prova più eloquente dell’esistenza della nazione; la scuola assurge a strumento politico dello stato al pari dell’esercito, della polizia e del tesoro. Quanto agli individui, la loro libertà si riduce alla volontà di identificarsi nel tutto rappresentato dallo stato, a sua volta espressione di una nazione. Questi, in sintesi, gli elementi che Kedourie pone alla base del nazionalismo.

Nulla di nuovo e di originale, si potrebbe dire. Eppure il libro di Kedourie presenta secondo me alcuni tratti originalissimi sia riguardo ai presupposti filosofici cui viene ricondotto il nazionalismo, sia per il modo in cui le idee vengono intrecciate con la carne e il sangue della storia, guardando non soltanto all’Europa ma anche altrove, soprattutto al medio oriente, senza mai cedere alla “tentazione sociologica”, come la chiama Kedourie, ossia alla tentazione di spiegare i fenomeni storici, non nella loro contingenza, bensì come espressioni di condizioni materiali o “cause generali” che operano nel profondo della storia stessa. Dirò qualcosa sui presupposti filosofici.

Si può certo rimanere sorpresi negativamente dalla scarsa rilevanza che Kedourie attribuisce a Rousseau, forse il principale riferimento per il “volontarismo fanatico” dei rivoluzionari nazionalisti, ma più ancora, secondo me, si rimane sorpresi positivamente dal modo in cui il nazionalismo viene ricondotto a Kant. Almeno tre dei sette capitoli di questo libro sono dedicati al principio kantiano dell’autodeterminazione e al modo in cui, specialmente attraverso Fichte, tale principio diventerà la base del nazionalismo. “L’autodeterminazione, scrive Kedourie, è, in ultima analisi, una determinazione della volontà: e il nazionalismo è, in primo luogo, un modo per insegnare la corretta autodeterminazione della volontà”. Mi rendo conto (ma se ne rende conto benissimo anche Kedourie) che Kant era del tutto estraneo a ogni logica nazionalista. Il suo pensiero morale era rivolto alla razionalità e alla volontà individuali e il suo pensiero politico era fondamentalmente repubblicano. Tuttavia è pur vero che le idee seguono spesso percorsi che il loro artefice nemmeno immagina. Di conseguenza, non soltanto direi che Kedourie non sbaglia affatto allorché legge I discorsi alla nazione tedesca di Fichte come una variante collettivistica del principio kantiano dell’autodeterminazione, ma aggiungerei che la sua lettura ci aiuta anche a comprendere meglio l’ampiezza di questo principio, diciamo pure un lato inedito della sua Wirkungsgeschichte, quale potrebbe essere il nazionalismo, divenuto il peggiore nemico della nazione.

A tal proposito mi si consenta un’ultima considerazione. Nella sua bella introduzione, Alberto Mingardi considera giustamente questo libro di Kedourie come una sorta di continuazione ideale di quanto, circa un secolo prima, nel 1862, era stato scritto da Lord Acton, in un saggio intitolato allo stesso modo: Nationalism. Presagendo quasi profeticamente i danni che il nazionalismo avrebbe procurato al mondo intero e all’Europa in particolare, Lord Acton guardava al sistema inglese della “libertà nazionale” come l’unico modo per salvare la nazione dalle derive nazionaliste implicite nel principio francese della “unità nazionale”, che ne faceva “il modello e la misura dello stato”. Convinto che “la combinazione di diverse nazioni in uno stato è una condizione di civiltà tanto necessaria quanto la combinazione degli uomini nella società”, Acton arrivò a sostenere che “gli stati sostanzialmente più perfetti includono varie nazionalità distinte senza opprimerle. Imperfetti sono invece quegli stati nei quali non si ha miscuglio di razze, e decrepiti quelli che non ne risentono più gli effetti”. Le pagine che Kedourie dedica a Stuart Mill e allo stesso Lord Acton sono la riprova di quanto egli fosse sulla stessa linea. Una ragione in più per leggere questo libro, specialmente se consideriamo i rigurgiti di nazionalismo che continuano a levarsi un po’ ovunque, non soltanto in Europa.