Primavera

La fotografia senza filtri del rapporto difficile fra due persone giovani e già disilluse.

Traduzione di Anna Rusconi

Pagine 312

ISBN 978-88-98094-90-5

Prima edizione 2021

Il prezzo originale era: 18,00 €.Il prezzo attuale è: 17,10 €.

Collana
Condividi

James ha vissuto da protagonista i primi anni Due­mila grazie a una startup d’istantaneo successo che, dopo averlo reso milionario per un breve periodo, altrettanto rapidamente è andata in fumo con la bolla dot.com, e ora vive passando da un lavoro all’altro.
Katherine dopo la laurea e un lavoro nell’editoria fa la receptionist in un grande albergo di lusso so­gnan­do un giorno di poterne aprire uno tutto suo in un luogo esotico.
James e Katherine, ancora giovani ma con buona parte delle loro speranze già alle spalle, si incontrano in una Londra livida e invernale.
Con un linguaggio crudo che è la cifra distintiva del­l’autore, Szalay racconta la vicenda di due persone che nella loro malinconica complessità si fanno spec­chio di un’intera gene­ra­zio­ne in cui ogni rapporto appare effimero.

È “Primavera” per il romanzo d’amore, di Paolo Bianchi, «il Giornale», 7 maggio 2021.

 

I romanzi d’amore contemporaneo probabilmente presto si divideranno in due tipi: prepandemici e postpandemici. Quello dello scrittore David Szalay, nato a Montreal, vissuto in Gran Bretagna e ora cittadino ungherese, di cui si tratta in queste righe si svolge prima, cioè una quindicina d’anni fa (pubblicato nel 2011, esce da noi solo adesso, sulla scia di altri successi dell’autore pubblicati da Adelphi) e soprattutto si svolge in un inizio di primavera, e infatti s’intitola Primavera (Liberilibri, traduzione di Anna Rusconi, pagg. 312, euro 18).

Attentissimo agli intrecci e alla costruzione degli ambienti, Szalay mette in scena tre personaggi principali, nella Londra di oggi: Katherine, trentenne che lavora alla reception di un albergo di lusso, volendo fare esperienza in attesa di gestire un giorno o l’altro un albergo tutto suo in una località turistica di mare; James, giovane uomo con l’attitudine all’investimento economico anche sconsiderato e all’azzardo, già fondatore di una start up che lo aveva visto ricchissimo sulla carta, ora fallita, e oggi in cerca di una vita media e di una donna; e Fraser, ex marito di lei, un fotografo con ambizioni artistiche, ma che sbarca il lunario come paparazzo.

Tutt’e tre si muovono in una Londra che sta uscendo dalla caligine dell’inverno, dove questa benedetta primavera sembra non arrivare mai, tra scrosci di pioggia e riscaldamenti che si affannano a prosciugare l’umidità di appartamenti angusti. James è l’unico a non nutrire grandi sogni, dovendo inventarsi un modo per svoltare la giornata, a costo di inoltrarsi in una losca storia di corse di cavalli, insieme a personaggi improbabili e velleitari.

In una finzione realistica molto attenta ai dettagli, Szalay mette il lettore di fronte a esseri umani gravati da quello che in inglese si chiama self-entitlement, cioè la convinzione di aver diritto a molto senza particolari fatiche. Questa Katherine è quasi da subito insopportabile, indecisa com’è se concedersi, e quanto, all’uno o all’altro dei due. Tra loro non si dicono «Ti amo», ma «Credo di amarti», poi non sanno neanche più quello che credevano di sapere. Fra l’insipienza di James, le lagne di Fraser, e i dietro front di lei, vien voglia di prenderli tutti a calci nel sedere. Tra l’altro tornano alla memoria (per chi c’era nei primi anni Novanta) i dialoghi della canzone Cara ti amo degli Elio e le storie tese, con un lui completamente asservito a una lei che lo fa diventare matto con le sue continue contraddizioni e giravolte.

E forse l’intento dell’autore è proprio questo: mettere chi legge in uno stato di disagio, facendogli desiderare però di andare avanti per vedere come andrà a finire. Anche le circonvoluzioni di James insieme ai suoi soci balordi, per produrre un film fallimentare, o tenere in comproprietà una cavalla da corsa da destinare a scommesse pilotate, hanno sempre un che di deprimente velleitarismo.

La luce grigia dell’incertezza si diffonde ovunque e si riverbera nei dialoghi, fra un «Perché non resti?» e «Non voglio dover decidere» e «Che c’è? Che cos’hai?» e «Voglio tornare a casa». Tutto un su e giù di sentimenti che non vanno mai a parare da nessuna parte. Il milieu è quello della borghesia urbana mediopiccola, con le sue nevrosi fatte di apparenze, invidie, e del desiderio di migliorare la propria posizione sociale. James subisce invece la degradazione di passare dall’esclusività effimera di Victoria Road a un quartiere ben più periferico. Il sogno della donna, che appartiene solo tangenzialmente a un ambiente di lusso, è quello di un’esistenza esotica. Insomma, ognuno fa quello che può, nel compromesso quotidiano con i propri scopi, in un libro che si rivela denso, stratificato, inquietante.

Nel frattempo, dello stesso autore Adelphi ha ristampato quest’anno Tutto quello che è un uomo (trad. Di Anna Rusconi, pagg. 402, euro 14) e Turbolenza (trad. di Anna Rusconi, pagg. 128, euro 15). Il primo narra la vita di nove maschi, a diverse età, che si muovono per l’Europa, anche loro all’eterno inseguimento di desideri insoddisfatti. Il secondo è un combinato di dodici racconti riferiti ad altrettanti personaggi legati da un filo comune, arrivi e partenze dal terminal di un grande aeroporto.

Il tema dell’amore, in questo scrittore molto apprezzato dalla critica è, per tornare al concetto iniziale, tanto postmoderno quanto prepandemico. Siamo in un mondo di spostamenti facili e di altrettanto facili squilibri. Qualcosa che potrebbe essere mutato per sempre, non necessariamente in peggio.

 

Primavera – David Szalay, di Nicola Vacca, «Gli Amanti dei Libri», 31 marzo 2021.

 

La letteratura vera è quella che sa raccontare la zona del nostro disagio e ha bisogno di scrittori capaci di rappresentare tutte le inadeguatezze di cui siamo fatti.

David Szalay è sicuramente uno di questi. Se con Tutto quello che è un uomo ci aveva sorpresi, con Turbolenza, ci ha definitivamente atterrati.

Adesso abbiamo l’occasione di conoscere ancora più a fondo Szalay, considerato uno dei più interessanti romanzieri contemporanei di lingua inglese.

La raffinata casa editrice Liberilibri ha appena pubblicato Primavera, romanzo che lo scrittore ha pubblicato nel 2011.

Un’altra gradita sorpresa e la conferma che siamo davanti a un narratore di razza.

Tra disincanto e disillusione, l’autore racconta la storia tutta londinese del disamore tra James e Katherine.

In una Londra gelida, invernale, spenta nella sua decadenza, Szalay racconta due esistenze che sembrano uscite da un quadro di Hopper.

Nello specchio di una malinconia decadente i due personaggi si annusano senza mai appartenersi: non esprimono mai abbastanza, non sentono abbastanza, non sono.

Nei momenti importanti del loro stare insieme pesa una tragica insufficienza del sentire.

La loro vita scorre in stanze annoiate o il tempo viene ammazzato nella noia di un pub. Katherine e James finiranno per sentirsi estranei, orfani di un amore che non provano, nonostante gli amplessi.

Primavera è un potente romanzo introspettivo, la scrittura di David Szalay è essenziale e minimalista.

Il linguaggio è crudo, le parole che i personaggi dicono, le azioni mancanti di gesti che compiono sono frutti marci di una incomprensione tra gli esseri umani, oggi molto diffusa in un mondo annichilito dal sonno della ragione e dei sentimenti.

Per Katherine, eterna insoddisfatta, l’amore è morto. James è convinto di essere innamorato di Katherine, la desidera, la possiede ma l’esperienza della sua esistenza lo conduce verso una deriva esistenziale in cui non c’è posto per le passioni.

Szalay attraverso la relazione tra Katherine e James, con una crudeltà che non fa sconti, con Primavera scrive un affresco convincente del nostro tempo  di miserie in cui non è per niente facile comprendersi perché non abbiamo voglia di ascoltare. Proprio come James e Katherine che nella luce nera di una Londra malinconica si rincorreranno senza mai incontrarsi davvero, perché per loro sarà sempre difficile rinunciare a quel nichilismo che si portano dentro, a quel nulla insensato, spirito dei tempi che allontana gli uomini dagli uomini.

 

Primavera, di Sabina Minardi, «L’Espresso», 11 aprile 2021, pag. 81.

 

Chi ha amato “Tutto quello che è un uomo” e “Turbolenza” (entrambi pubblicati da Adelphi) apprezzerà questo terzo romanzo, storia di James e Katherine che, nella luce livida di una Londra tormentata e affatto beneaugurante, intrecceranno i loro destini disillusi. Sospesi tra una stagione che promette cambiamenti, e malinconie che, invece, prevalgono. Indubbia la capacità dello scrittore di indagare nell’animo umano, anche dove non c’è consolazione.

 

Memento mori, di Fabrizia Sabbatini, «L’intellettuale dissidente», 16 aprile 2021.

 

La Primavera è un punto di non ritorno. Nasce sul finire di qualcosa, muore sul principio di qualcos’altro. È una stagione di passaggio, un ponte da traversare per giungere all’altra riva. È morte, vita, fertilità. Rinascita. Può essere crudele – come l’aprile di T.S. Eliot ne La terra desolata – efferata, come quella di David Szalay, che con il suo romanzo, Primavera – edito in Italia da Liberilibri – ne affronta la spietatezza in una Londra dal vapore gelido, dove i suoi personaggi si muovono come ombre inquiete in una luce che diviene sempre più crepuscolare, disvelando la trama stessa dell’esistenza, che si sostanzia nella caducità del tempo e nella solitudine dell’uomo. Tempo e solitudine. Due temi cari all’autore canadese, concepiti in maniera embrionale in questo printemps della sua narrazione e che vedranno compiutamente la luce nella sua opera successiva, Tutto quello che è un uomo (in italiano già pubblicato da Adelphi).

In Primavera un’atmosfera rarefatta accompagna l’incontro delle solitudini di James e Katherine, due vite distrutte da un tracollo personale – il fallimento di una startup milionaria quella di lui, un matrimonio finito quello di lei – interiormente divise tra un prima e un dopo, due vite che non si incontreranno mai realmente, intimamente. Szalay dà voce alla dura consapevolezza che alberga nell’animo di entrambi, la necessità di ricominciare dopo aver assistito al disfacimento del proprio microcosmo, alla perdita del proprio status sociale, confidando nella natura obliterante del tempo e nella conseguente, graduale dissolvenza del senso di umiliazione personale, di sconfitta. Due esistenze che si toccano dando vita ad una relazione deprimente e moderna, in cui ognuno si fa isola, resta nucleo a sé stante. Dialoghi vuoti, atteggiamento blasé, erotismo triste e solipsistico che si riduce a mera carnalità, un rapporto fatto di individualismi, di singole alienazioni. Un debole legame in cui ognuno si serve della solitudine dell’altro per meglio comprendere la natura della propria. L’arida liaison si rivela infatti, in ultima battuta, feconda per entrambi, per giungere al proprio, personale punto di non ritorno. Quello in cui lasciar scivolare via il proprio passato, mutare pelle e vita. Il momento in cui il crepuscolo cala sulla solitudine di ciascuno, quello in cui, per David Szalay, la Primavera si compie.

La narrazione si svolge fuori e dentro il tempo, che rappresenta il leitmotiv dei suoi romanzi, inteso come unico elemento eterno in un’esistenza in cui tutto si rivela perituro. Il tempo si dilata, in una continua alternanza fra un incerto presente e le memorie di un glorioso passato, di primavere felici, inondate di luce. Primavere di ricordi. Per James la reminiscenza di una corsa in cabriolet, l’adrenalina sottopelle, il sapore dolce del successo, la costruzione di una dimora lussuosa, il proprio nome in prima pagina, le interviste dei grandi giornali finanziari. Per Katherine la rievocazione del coup de foudre con suo marito, la percezione di aver vissuto un’affinità elettiva, l’eccitazione delle prime volte, la dimenticanza dell’adulterio che ha portato alla fine. Ma, se non esistono cicatrici guarite nella vita di un individuo, come sostiene F.S. Fitzgerald in Tenera è la notte, è bene, prima che il passato si cronicizzi, ridurlo a quella punta di spillo a cui, per l’autore americano, si restringono le ferite. Ed è in quella punta di spillo che è racchiuso il punto di non ritorno a cui approdano i due protagonisti di Primavera, ognuno per proprio conto, come al termine di un faccia a faccia con sé stessi. Szalay si fa cantore del tempo senza fare appello alla nostalgia né ad infidi moti empatici. Perché se costui scorre inesorabile, laddove i suoi personaggi accennino a crogiolarsi in attimi di malinconia, la sua scrittura ferma, aspra se necessario, diviene per gli stessi un memento mori.

Con la sua prosa cesellata ma priva di orpelli non ricorre a lirismi di alcuna sorta e le sensazioni dei due protagonisti risalgono in superficie per poi sfumare rapidamente, evanescenti come una nuvola di fumo. Compiono un breve viaggio fino al lettore per poi esalare un ultimo respiro. Szalay si serve del tempo per interpretare l’essere con un esistenzialismo dagli echi heideggeriani. Un tempo, che solo per un attimo si arresta, e da cui, dopo quell’attimo stesso, non si può più retrocedere. Un punto di arrivo e di inizio insieme, una frazione di eternità in cui tutto cambia, per sempre. Con il suo stile impalpabile, scava a mani nude nelle macerie umane, ne estrae i resti, li plasma, dando vita a pagine di letteratura che lo erigono direttamente sul proscenio degli autori più raffinati del nostro tempo.

 

Com’è triste la “Primavera” di James e Kate, di Carlotta Vissani, «Il Fatto Quotidiano», 24 aprile 2021, pag. 22.

 

Un pulcino di tordo cade dal nido e muore. I genitori continuano a portargli vermi, tentando di imbeccarlo invano, girando di tanto in tanto la testa, incapaci di capire come mai non li prenda. È un’immagine che trafigge James con un dolore che “non ha più dimenticato”.

Accade a Londra, una mattina di primavera, “aprile è il più crudele dei mesi”, stagione poco consolatoria, nonostante il simbolismo di fertilità e rinascita, per chi sente, seppur appena trentenne, già a corto di speranze e ambizioni e soprattutto, come i due tordi che si guardano attorno perplessi, rimugina all’infinito sul perché niente vada come vorrebbe. Prima milionario grazie a una start-up, poi, causa fallimento, costretto a ridimensionare abitudini, abbassare aspettative, e farsi andar bene una “vita decorosa”, James si barcamena tra un lavoretto e l’altro, compresa l’ippica al limite della legalità e prova a far girare una relazione che non spicca il volo.

Protagonista di Primavera – terzo romanzo di David Szalay, nel 2013 nella lista dei migliori scrittori britannici (ha origini canadesi) under 40 secondo Granta, finalista al Booker Prize 2016 con la raccolta Tutto quello che è un uomo (Adelphi) – , James incontra Katherine, receptionist in un albergo di lusso col sogno di aprirne uno in una location esotica, separata ma non divorziata da un paparazzo appassionato di fotografia paesaggistica, a una cerimonia nuziale, in inverno. I due scivolano da subito in una liasion inconsistente, noiosa, bradicardica che ruota intorno alla completa evasività di lei – che tre volte sì e una no si sottrae all’intimità (un flop totale, per inciso), risponde a monosillabi e preferisce trascorrere il tempo libero per conto suo, salvo poi ritrattare con crudele seduttività se le fa comodo – e l’inclinazione all’insistenza di lui, alla mercé degli snervanti umori di lei. James fatica a capire – non ci riesce neanche quando lei, di fronte all’aneddoto del tordo, abbozza solo un “oh, no”, sforzandosi di addolorarsi senza riuscirci, che per sentirsi soli in coppia tanto varrebbe esser single.

Alternando le voci in terza persona, con scrittura asciutta, squisitamente cinica, lontano da ogni svenevolezza sentimentale ma anche da ogni giudizio, Szalay è abile a restituire l’immagine di due solitudini moderne che nell’unirsi si fanno ancor più nette. Tormentati da un passato punteggiato di momenti gloriosi – per James le corse in cabriolet, il profumo della fama e del successo, per Katherine il ricordo del colpo di fulmine col marito e l’illusione di aver trovato l’affinità perfetta – i due si muovono “come un sacchetto di plastica portato dal vento” sullo sfondo di una Londra crepuscolare e fredda, specchio della loro interiorità disidratata.

Ma è proprio la fragilità del legame a consentirgli di arrivare al punto di rottura che costringe a tirare una riga su “ieri”, smettere di pensare a quanto sia “merdosamente triste il modo in cui tutto va avanti, scivolando verso il nuovo” (il tema del tempo che passa inesorabile, senza che se abbia vera coscienza, è caro all’autore) e cominciare a credere che quel “nuovo” potrebbe riservare una primavera che palpita anziché agonizzare.