Attraverso una narrazione concettuale e non cronologica, Simon Heffer analizza le diverse forme di organizzazione e gestione del potere.
Territorio, Dio, Ricchezza, Idee vengono individuati quali elementi chiave per ricostruirne le traiettorie, dalla Grecia classica ai nostri giorni.
Il testo costituisce anche una guida utile per comprendere la provenienza della complessa architettura politica e sociale all’interno della quale ci troviamo a vivere.
Relativismo armato, di Carlo Gambescia, «carlogambesciametapolitics2puntozero», 4 ottobre 2018
In che senso una storia del potere può essere breve? A questo pensavamo leggendo il delizioso libro di Simon Heffer, giornalista, scrittore e storico britannico, penna di punta del “The Daily Telegraph” e “The Spectator”, un tory, insomma… O se si preferisce un liberal-conservatore. O meglio ancora: un liberale triste. Su quest’ultimo punto torneremo nella chiusa.
Dimenticavamo: il titolo del libro è, per l’appunto, Una breve storia del potere (introduzione di Lorenzo Castellani, traduzione di Cristina Ruffini. Liberilibri, Macerata 2018, pp. 164, euro 18,00). L’edizione inglese è del 2011. Heffer fa precedere quella italiana da un Post scriptum, dove, tra le altre cose, forse ancora fresco di Brexit ( il tory sbilenco Boris Johnson, non è tra i preferiti di Heffer…), mette in guardia l’Italia, con grande discrezione, sui rischi di un’uscita dalla Ue.
Dicevamo breve. Nel senso del numero delle pagine? Quindi della brevità fisica? Oppure nel senso del farla breve ? Il potere è questo, inutile tirarla per le lunghe. Heffer, non lo scrive, ma crediamo che il senso profondo del saggio, sia proprio quest’ultimo: potere sugli uomini, quindi come forma di controllo politico-sociale, che punta sulla conquista di quattro fondamentali: risorse, territorio, fede, ricchezza, idee. Punto.
Di qui però, nasce il conflitto per l’appropriazione di quel che rappresenta e permette di esercitare il potere. Ciò significa che “ la violenza è sempre stata un istinto umano fondamentale e fin dall’epoca primitiva ha occupato un posto di rilievo nella formazione dell’ordine naturale della civiltà”.
Per dirla fuori dai denti, Una breve storia del potere non è un libro per cuori teneri: Heffer, come del resto accenna Lorenzo Castellani nella sua interessante introduzione, ripropone le tesi del conflittualismo sociologico. Pertanto non solo Oppenheimer, ma anche Bagehot, Gumplowicz, Ratzenhofer, Sumner e Small. E ancora prima, visto che siamo nella terra dei castelli, quello filosofico dei nobili fantasmi senza pace di Hobbes, Machiavelli e Nietzsche.
I motori della storia umana sono la “sete di risorse” e i quattro modi, appena ricordati, per procurarsele. La diplomazia, spiega Heffer, è solo una opzione legata a quell’ingentilimento dei consumi che ha egregiamente accompagnato lo sviluppo della civiltà liberale e dei mercati aperti. E che per ora, ha solo tentato di sostituire – l’esperimento è ancora in corso – alla guerra il contratto. Pertanto, nessuna “fine della storia” come invece sosteneva Francis Fukuyama, ma solo cicli, segnati da alti bassi, dove la guerra, per motivi geopolitici, religiosi, economici, ideologici, si alterna alla pace, che è sempre pace armata. Ecco la breve storia del potere.
Ovviamente, queste tesi, sono sviluppate attraverso una dottissima galoppata lungo la storia dell’Occidente (a noi piace con la maiuscola) e dei popoli che hanno interagito con esso. Che è storia di guerre e conquiste.
Quindi un saggio, per usare una terminologia alla moda, politicamente scorretto. Soprattutto quando si arriva all’oggi: alla domanda su cosa devono fare Stati Uniti ed Europa – insomma l’Occidente – per fronteggiare i non pochi nemici: tra gli altri, l’Islam radicale e una Cina, altrettanto, radicale, ma solo sul piano dell’aggressività economica; per non parlare della Russia di Putin, politicamente complessata e in cerca di capri espiatori esterni.
La risposta di Heffer, che al giocoliere Fukuyama sembra preferire il riflessivo Huntington, è secca: “Il trionfo della democrazia liberale resta una vittoria incompleta. La civiltà democratica occidentale è sulla difensiva. Le idee di Hobbes, di Machiavelli e di Nietzsche gareggiano per indebolirla. L’idealismo è minacciato dalla realtà della natura umana. La forma peggiore di autocompiacimento, in Occidente, sarebbe continuare a credere che i nostri valori sono così superiori da non poter essere, alla lunga, messi in dubbio da quelli degli altri […]. Il primo passo in difesa della democrazia deve essere quello di riconoscere che il desiderio altrui di far valere il proprio potere, per le proprie ragioni, è altrettanto intenso del nostro. Se utilizzeremo le nostre libertà per indebolire il nostro sistema di valori, allora perderemo” .
Si potrebbe definire relativismo armato. Inutile farsi troppe illusioni – ecco il succo del libro – gli altri desiderano la nostra fetta di torta come noi desideriamo la loro. È una legge universale. O se si vuole una costante metapolitica. Altrimenti le prigioni sarebbero vuote e i campi di battaglia deserti. Il contratto lo si difende con la spada. Si chiama anche liberalismo triste. Heffer è consapevole dei limiti umani, però resta liberale, ma triste, perché da conservatore (come dire?) “antropologizzante” ma in negativo: sa che si dovrà usare la spada. E usarla bene.
Le riflessioni del britannico Simon Heffer autore del saggio di filosofia politica “Breve storia del potere”, di Corrado Ocone, «Il Dubbio», 31 ottobre 2018, pagg. 8-9
Il titolo del libro è a dir poco ambizioso: Una breve storia del potere (Liberilibri, introduzione e traduzione di Lorenzo Castellani, pagine 164, euro 18). E lo è per i motivi che adduce l’autore stesso, Simon Heffer, che è uno storico e un affermato giornalista inglese (già vicedirettore del quotidiano “The Daily Telegraph” e del settimanale “The Spectator”): il perseguimento del potere è connesso allo stesso essere umano, e quindi a tutte le società e le civiltà che la storia ci presenta.
Attraverso una ammirevole padronanza della storia, con una capacità di sintesi notevole, Heffer individua quattro tipologie di motivi che muovono gli uomini e i popoli a cercare sempre più ampi spazi di azione o influenza per loro stessi, cioè il potere per l’appunto. Lo fa non con la rigidità intellettualistica del sociologo, portato a concepire i suoi schemi mentali come quasi fissi e immutabili, ma con la duttilità dello storico che sa che la vita effettiva degli individui e dei popoli è sempre più piena di significato di quanto i nostri schemi di comprensione possano permettere di contenerne. La storia, detto altrimenti, è sempre pronta a relativizzare o distruggere i paletti concettuali con cui ci orientiamo in essa.
I quattro motivi che secondo Heffer ci spingono a cercare il potere sono: 1) il territorio, 2) Dio e cioè la religione, 3) la ricchezza, 4) le idee o meglio l’affermazione di una ideologia. Nell’ottica dei valori che sorreggono la nostra civiltà, potremmo dire che due motivazioni sono “materiali”, il territorio e la ricchezza, e due “morali”, la religione e l’ideologia. Ove però Heffer sembra essere consapevole che anche ciò che è morale ci porta, attraverso la persuasione più che attraverso la forza bruta, a cercare il potere, a volere accrescere il nostro spirito vitale (coloro che fanno nascere o prendono in prestito delle idee “cercheranno sempre il potere per farle valere, o per imporle agli altri”).
Inutile poi dire che i quattro elementi non si trovano mai, nelle dinamiche storiche, presenti allo stato puro: sono sempre mescolati gli uni con gli altri (e ciò è evidente soprattutto nella storia del Novecento). Di nessuno di essi si può poi dire che sia superiore e più importante degli altri, come poteva essere il fattore economico nell’analisi marxiana. In modo carambolesco, ma mai superficiale, Heffer esemplica le quattro forme di potere passando con facilità dalla storia greca e romana a quella medievale e moderna, dal mondo occidentale alle altre civiltà (asiatiche, africane, precolombiane, ecc.). Lo fa con levità e senza manicheismi, con una sobrietà tutta inglese che si richiama costantemente ad una sorta di liberalismo realista che rifugge sia dalle utopie liberal sia da una chiusura astrattamente conservatrice rispetto ai cambiamenti, fra l’altro oggi sempre più repentini, delle coordinate del mondo e dello scenario globale.
Heffer è conservatore per il semplice fatto che ha un senso storico spiccato, che rispetta le tradizioni consolidate entro la cui cornice solamente può svolgersi un cambiamento civile, effettivo e non velleitario. Ma è altresì un “progressista” disincantato, se così si può dire, che non crede all’idea di Progresso: cioè crede, e vorrebbe che la storia ci aiutasse a comprendere, che la peggiore barbarie è sempre dietro l’angolo, che la civiltà si può perdere in un attimo e che bisogna perciò sempre essere vigili e attenti. Il Progresso non si dà qui né, ovviamente, nella formula illuministica, cioè in modo cumulativo e continuo, né in quella idealistica che vede anche nei regressi una crisi di crescenza che porterà la civiltà a superarli in sintesi più ampie.
Fra le grandi “filosofie della storia” emerse, soprattutto a livello mediatico, dopo la fine del comunismo, Heffer sembra prendere più sul serio quella dello “scontro di civiltà” di Samuel Huntington che non quella della “fine della storia” di Francis Fukuyama. Il problema è ovviamente soprattutto l’ostilità e aggressività del mondo islamico verso il nostro, che data dai tempi di Maometto ma che ha preso nuova forma e recrudescenza negli ultimi decenni. Anche se poi Heffer non è sicuro che sia solo la religione, e non anche un’ideologia, quella che muove gli islamisti radicali e i terroristi. Si tratterebbe, in questo secondo caso, dell’ “opposizione di principio all’America, sia come idea a sé stante sia come entità”. È questa “una delle grandi ideologie a livello mondiale”, che “deriva dalle vecchie dottrine anticapitaliste e antimperialiste”. Se così fosse, anche se l’autore di queste pagine non lo dice, l’islamismo sarebbe anche per questa parte più moderno che medievale, figlio anche esso di un mondo “occidentalizzato” se è vero come è vero che l’antioccidentalismo nasce come ideologia all’interno dello stesso Occidente.
Anche Heffer, come un’ampia letteratura odierna per lo più politologica e anglosassone, parla di una attuale “crisi dell’ordine liberale”. Egli però vede quest’ultimo insidiato non tanto dai movimenti che si è soliti chiamare “populisti”, ma dalla possibilità, sperimentata con successo soprattutto n Cina, ma con ampie imitazione un po’ in tutto il mondo, di unire autoritarismo e capitalismo, la libera intrapresa e il libero mercato con un forte controllo sui movimenti e la libertà delle persone. Forse anche per motivi temporali (l’edizione originale del libro è del 2011), nella parte dedicata all’oggi Heffer non tiene in conto dell’attuale “rivolta” contro le élites che sembra accomunare la vita politica un po’ in tutto il mondo occidentale. Né sappiamo quale giudizio l’autore abbia in altre sedi maturato in proposito. Attenendosi al suo liberalismo realista, e quindi non liberal, si può però abbozzare una risposta plausibile e di buon senso a questo problema. Sicuramente, da questo punto di vista, assistiamo a un fallimento dei vecchi gruppi dirigenti, ai quali è imputabile proprio un eccesso di utopia intellettualistica e razionalistica che li ha portati ad allontanarsi dai problemi e dalle esigenze della gente. Si è trattato di un agire e di un potere ideologico, anche se poi ad esso, per restare alla tassonomia proposta, si sono aggiunti fini di potere più materiali e terreni.
Il “populismo”, da questo punto di vista, lungi dall’essere, come è nella retorica liberal, un male o un cancro da estirpare e a cui opporre strenua resistenza, è forse null’altro che la confusa ricerca di nuovi equilibri di potere, di nuove idee e anche di una nuova classe dirigente che se ne faccia portatrice e che possa godere del consenso popolare (se è evidente come è evidente che il governo diretto del popolo è anch’esso una utopia). Che la risposta qui abbozzata non tradisca lo spirito di questo libro, lo si può capire anche delle poche ma puntuali pagine di buon senso e realismo che l’autore dedica all’Unione Europea. Il progetto di unificazione viene catalogato sotto la categoria di “idealismo”: una “quasi utopia” che non tiene in debito conto delle diversità che la storia ha sedimentato fra i popoli europei ma che indubbiamente risponde all’esigenza di tenere unita quanto più possibile quella parte di mondo che, pur con tutte le sue differenziazioni interne, è legata da una comune civiltà che potremmo dire cristiana e liberale.
Il progetto europeo, osserva Heffer, è sorto nel secondo dopoguerra sull’onda di un’ideologia sovranazionalista che imputava al nazionalismo le due guerre mondiali e i totalitarismi. Il progetto si avvaleva poi, anche se Heffer non lo dice, del beneplacet degli Stati Uniti che avevano interesse a mantenere unito il blocco geopolitico che si opponeva al mondo comunista in quella “guerra fredda” che l’autore del libro non esita a definire, come in senso nobile certamente fu, una “guerra ideologica”. Ora, a parte le motivazioni storiche venute meno e a parte le degenerazioni burocratiche che il progetto ha avuto nel tempo, a me sembra rilevante considerare le riflessioni che, pur non riferendosi esplicitamente all’ideologia sovranazionalista che anima il progetto europeo, Heffer aveva fatto poco prima nel libro parlando delle “ambiguità del nazionalismo”. Il quale se da una parte può assumere, e spesso nella storia ha assunto, i connotati di una ideologia “deleteria”, dall’altra “può essere anche buono e assumere la forma d’un desiderio di autodeterminazione invece che di espansione”. La storia è piena di esempi, anche recenti, dell’uno e dell’altro tipo. Non solo!
Potremmo con facilità aggiungere che lo stesso liberalismo, per come si è affermato nell’Ottocento, cioè come costituzionalismo, divisione dei poteri e parlamentarismo, sarebbe del tutto inconcepibile senza il forte riferimento alla nazione e allo Stato-nazione come concreta forma politica di organizzazione della libertà individuale. Se ne può perciò dedurre che globalismo e nazionalismo, per sé presi, sono concetti “neutri” e passibili entrambi, come ogni idealità umana, di degenerazioni. Che, per caso, non è una possibile degenerazione autoritaria e illiberala l’utopia di uno Stato unico o mondiale, che facilmente evoca scenari di tipo orwelliano? È certo che, connesso al liberalismo, è un afflato morale e quindi universalistico, ma è pur vero che il pensiero realista ci ha insegnato che l’universale diventa concreto se si incarna in qualcosa di effettivo e reale. Lo Stato-nazione ha rappresentato, con tutti i suoi difetti e le sue degenerazioni, questo qualcosa.
In sostanza, il libro di Heffer vuole essere un richiamo a tener presente la costante più forte della storia e direi della natura umana: la ricerca del potere. Il quale se è la modalità in cui deve di necessità tradursi ogni nostra idealità, compreso il liberalismo, è d’altro canto anche ciò che deve portare la civiltà democratica occidentale, oggi in affanno e “sulla difensiva”, a non sottovalutare mai i propri nemici in nome di un’astratta idea di progresso o dell’utopia di un mondo pacificato e senza più conflitti. “Il primo passo in difesa della democrazia -afferma a ragione Heffer- deve essere quello di riconoscere che il desiderio altrui di far valere il proprio potere, per le proprie ragioni, è altrettanto intenso del nostro”.
No, la storia non è finita e l’ordine liberale è in crisi, secondo Simon Heffer, di Fabrizia Sabbatini, «Atlantico Quotidiano», 9 ottobre 2018
Se nel 1954 il filosofo tedesco Carl Schmitt dialogava col potere, oggi lo storico britannico Simon Heffer prosegue quella stessa narrazione in “Una breve storia del potere”, un brillante saggio appena pubblicato da Liberilibri. Non è un caso che proprio Carl Schmitt avesse già spiegato diversi decenni prima, con il suo profetico “Terra e mare”, quel fenomeno che oggi chiamiamo Brexit, sostenuto dallo stesso Heffer, schieratosi a favore dello UKIP e del suo leader Nigel Farage.
Se Carl Schmitt spiegava la storia del mondo come quella della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri e delle potenze terrestri contro le potenze marittime, Heffer ricostruisce la storia e la conseguente evoluzione del potere politico con riferimento a quattro elementi: territorio, ricchezza, religione e ideologia, con delle suggestioni finali su cosa potersi aspettare dal futuro di un mondo la cui storia non è ancora finita, contrariamente a quanto affermato dal politologo statunitense Francis Fukuyama.
Con grande lucidità Heffer interpreta la storia del potere tramite due schemi analitico-politici: realismo e liberalismo – come sottolineato da Lorenzo Castellani nella sua introduzione – contestando l’idea che la storia stia volgendo al termine per la vittoria universale della democrazia liberale sul comunismo ed assumendo una posizione di sintesi fra liberalismo classico e la critica che gli veniva rivolta da autori come Max Weber o il già citato Carl Schmitt.
Il tema principale per l’autore riguarda l’idea del conflitto, che il liberalismo classico tende ad imbrigliare nel giuridico mentre egli vuol dimostrare come questo non possa essere espunto dalla dinamica politica, spiegando così come sia possibile oggi la nascita di movimenti politici sempre più estremizzati in un clima di totale irrazionalità.
Se regole costituzionali, libertà personali e organizzazione statuale possono addomesticare la politica per qualche tempo, non possono certo neutralizzarne gli effetti disordinanti, spiega l’autore, sostanzialmente proseguendo quella narrazione schmittiana secondo la quale molti vedono “solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento”.
Simon Heffer è un realista con approccio liberale e allo stesso tempo eclettico al potere, il suo libro spazia dalla storia delle relazioni internazionali a quella delle istituzioni, dall’economia alla storia delle religioni, dalla personalità degli Stati alle personalità carismatiche che ne hanno animato la politica.
Un dettagliato excursus che va da Gengis Khan a Guglielmo il Conquistatore, da Napoleone a Hitler e Stalin, incontrando Federico il Grande, Bismarck, Giustiniano e passando dall’impero di Roma al primo Reich tedesco.
L’autore affronta in maniera estremamente lucida il problema della degenerazione delle democrazie in totalitarismi ma anche il rapporto politica-religione, la secolarizzazione delle istituzioni pubbliche – passando dal patto con Dio al patto fra cittadini – la relazione tra ordine politico e sviluppo capitalistico da cui dipende oggi l’influenza geopolitica degli Stati.
A far da Virgilio al lettore fra gli infernali gironi del potere non mancano Machiavelli, Hobbes, Nietzsche, Schopenhauer, Marx, pronti a tradurre in categorie filosofiche momenti di collasso politico, depressioni economiche e oppressioni sociali lungo i secoli.
Al centro della narrazione storica di Heffer ci sono le nazioni in quanto costruzione sia fisico-politica che ideologica, inizialmente strutturatesi con il passaggio da città-stato a principati per difendersi da un nemico comune, in alcuni casi originatesi a seguito della difesa di principi religiosi – come nel caso dell’istituzione dell’impero carolingio e del primo Reich – o per impulsi imperialistici, sino alla modernità e al conseguente trionfo della politica ideologizzata, che ha portato, dopo una fase di trionfo del sovranazionalismo come risposta al nazionalismo, alla destrutturazione del primo in favore di un nuovo desiderio di autodeterminazione invece che di espansione, ad una forma di nazionalismo che l’autore definisce “buono”.
Ma se per l’autore la storia non è finita, essa continua a esporsi a delle sfide mostrando la sua vulnerabilità soprattutto sotto un profilo liberal-democratico. Se infatti una delle basi della fede nella libertà è stata anche la convinzione che essa dovesse prevalere per il funzionamento di un libero mercato e che detto libero mercato fosse il sistema per massimizzare la prosperità di una società, oggi nel libro della storia globale si apre un nuovo capitolo con la crisi dell’ordine liberale e l’insorgere del capitalismo autoritario.
Illuminante a tal proposito una affermazione di Robert Kagan, relativa alla divisione dell’Occidente nei suoi atteggiamenti verso l’esercizio del potere per il futuro: “Una delle cose che divide in modo più netto gli europei e gli americani oggi è un disaccordo filosofico, addirittura metafisico, sulla posizione dell’umanità nel continuum tra le leggi della giungla e le leggi della ragione”.
“Una breve storia del potere”, di Gabriele Ottaviani, «Convenzionali», 4 ottobre 2018
Molte delle guerre che hanno redistribuito il potere e hanno influenzato il corso della storia hanno avuto una motivazione palesemente religiosa. Fino a non molto tempo fa questo era considerato un fenomeno pre-moderno, ma dall’inizio di questo secolo l’ascesa dell’estremismo islamico ha dato a questa motivazione una nuova rilevanza. La Bibbia contiene un messaggio ambiguo sulla guerra. Il Vecchio Testamento la autorizza, a patto che sia condotta in nome di Dio e per realizzare i suoi scopi.
Una breve storia del potere, Simon Heffer, Liberilibri. Traduzione di Cristina Ruffini. Introduzione di Lorenzo Castellani. Il potere logora chi non ce l’ha, si sa, e per conquistarlo e soprattutto mantenerlo si è disposti a tutto. Perché dà forza. Libertà. Consente di poter decidere. Di non essere secondi a nessuno. Di fare quello che si vuole. Quando lo si vuole. Senza rendere conto a nessuno. È un’innata aspirazione dell’anima umana, che spesso si tinge di nero, oscuro presagio di morte e sopraffazione: da sempre gli individui lo hanno ricercato, vagheggiato, bramato, hanno ordito trame terribili, iniziato guerre pur di conquistarlo, ed è tema di un’amplissima letteratura (e non solo). Simon Heffer ne fa un’esegesi a tutto campo, da leggere e rileggere per riflettere e capire.