L’ultimo Papa d’Occidente?

Il lucido pellegrinaggio nella modernità e nel vecchio mondo compiuto in 50 anni da Joseph Ratzinger, papa Benedetto XVI. 

Introduzione di John Waters

Pagine XVIII-112

ISBN 978-88-98094-72-1

Prima edizione 2020

Il prezzo originale era: 14,00 €.Il prezzo attuale è: 13,30 €.

Collana
Condividi

Aveva previsto tutto. La cesura del Sessantotto, il collasso della sua Chiesa, il dominio del relativismo, l’addio dell’Europa al cattolicesimo senza lacrime né nostalgia, il fanatismo islamico, il neomarxismo della Chiesa del popolo, gli ecologismi apocalittici, il mondo nuovo delle Nazioni Unite, il paradosso di un Occidente che al massimo della propria potenza materiale raggiunge l’apice dell’insicurezza culturale, l’avvento di un’Europa post-europea. È Joseph Ratzinger. Prima di diventare Benedetto XVI, in mezzo secolo di saggi, conferenze e interviste, Ratzinger ha compiuto un lucido pellegrinaggio nella modernità e nel vecchio mondo segnato dalla mancanza di respiro, dal vuoto, dalla derisione. Da papa, la sua presenza era intollerabile, il suo genio una minaccia, le sue dimissioni sono state un sollievo per tanti. A distanza di quindici anni dall’elezione al soglio pontificio, Benedetto XVI appare come l’“ultimo papa” di cui parlava Friedrich Nietzsche. Almeno d’Occidente.

Benedetto XVI e l’intuizione delle cadute dell’Occidente, di Cesare Cavalleri, «Avvenire», 27 maggio 2020, pag. 20.

 

L’importante, nel titolo del profilo teologico di Benedetto XVI tracciato da Giulio Meotti, L’ultimo Papa d’Occidente?, è il punto interrogativo (Liberilibri, pagine 132, euro 14). Meotti, dal 2003 giornalista de “Il Foglio”, collaboratore di testate internazionali e coltissimo saggista, non asserisce che Papa Ratzinger sia l’ultimo Pontefice occidentale: espone un’ipotesi, tanto meno una profezia. Il libro è breve: 82 pagine di testo, ma con 285 note che sono circostanziati rimandi bibliografici a riprova dello scrupolo documentario dell’autore, più sette pagine di prefazione del saggista irlandese John Waters che definisce Benedetto XVI «il Solženicyn del XXI secolo». Ratzinger, da filosofo, teologo e poi da Papa, aveva visto tutto, capito tutto. Aveva l’impressione che «negli ultimi quattro secoli la storia del cristianesimo sia stata una continua battaglia di ripiegamento». E aveva indicato «il nocciolo della crisi dell’Occidente e dell’Europa» nella «rassegnazione di fronte alla verità». Ratzinger aveva denunciato il relativismo, oggetto della sua indomita battaglia culturale, come «anticamera del nichilismo», e i nostri anni gli hanno dato ragione. Aveva colto che «tra liberalismo e marxismo esisteva ed esiste ancora una silenziosa connivenza su punti rilevanti: un’interpretazione del mondo basata esclusivamente su forze materiali. Il liberalismo puro non può superare il marxismo». La cesura culturale del Sessantotto non l’aveva colto di sorpresa: «Il 1968 è legato all’emergere di una nuova generazione che guardò all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del Cristianesimo, come a un errore e un insuccesso». Meotti osserva che non è un caso che i più ascoltati guru del Sessantotto siano finiti suicidi: «Come Gilles Deleuze, che si è lanciato dalla finestra del suo appartamento parigino nel XVII arrondissement. Come Michel Foucault, morto di Aids, in un cupio dissolvi morale prima che sessuale. Come Louis Althusser, che uccise la moglie e poi finì i suoi giorni in una clinica psichiatrica. Come Guy Debord, che si sparò un colpo di fucile». Né meno netta è stata la valutazione ratzingeriana della passione occidentale per il buddhismo: «Se il buddhismo seduce è perché appare come una possibilità di toccare l’infinito, la felicità, senza avere obblighi religiosi concreti. Un autoerotismo spirituale, in qualche modo». Quanto all’islamismo, la famosa conferenza di Ratisbona nel 2006 ha messo a nudo la sfiducia dell’islam nella ragione: non poteva essere diversamente per un Papa che aveva capito che la fine del cristianesimo in Occidente sarebbe stata preceduta dalla «fine della metafisica». Nonostante le sue analisi di straordinaria lucidità filosofica e teologica, Benedetto XVI si è dimesso. Il relativismo ha consolidato il proprio impero in tutte le latitudini, e il Papa, sentendo venir meno le proprie forze fisiche, ha scelto di dedicare l’ultima parte della sua vita alla preghiera e allo studio. Non è certo un ripiego. Quanto all’interrogativo nel titolo di Meotti, abbiamo fede che la fantasia dello Spirito Santo, che ha dato alla Chiesa Papa Francesco, non verrà mai meno.

 

Ratzinger comprese da subito l’impostazione anticristiana del ’68, le incertezze e confusioni del Concilio Vaticano II, di Gianfranco Morra, «Italia Oggi», 12 maggio 2020, pag. 8.

Il regalo più bello per i suoi 93 anni Ratzinger l’ha ricevuto da un giornalista tedesco, Peter Seewald, che ha pubblicato la più grande biografia del papa: Benedetto XVI, una vita (uscito da pochi giorni in Germania, in autunno la pubblicherà in italiano Garzanti). Un’opera molto vasta (pp.1184), alla quale il giornalista ha lavorato alcuni anni. Corrisponde alla gigantesca Vita di Giovanni Paolo II, pubblicata dal giornalista americano George Weigel (Mondadori, pp. 1290), da me recensito su ItaliaOggi lo scorso 7 aprile).

Un saggio molto più breve, dedicato a papa Ratzinger, è in tutte le librerie. Ne è autore uno specialista nel campo cristiano e in quello ebraico, Giulio Meotti: L’ultimo Papa di Occidente (editrice Liberilibri, pp. 130, euro 14). La posizione dell’autore, che gli ha tirato contro non poche critiche dei cattolici progressisti, è il tradizionalismo. Tuttavia, quando ho preso in mano il libro, sono rimasto un po’ sconcertato per il titolo.

Non mi stupiva l’espressione «l’ultimo papa». Che è famosa, visto che è stata usata da Federico Nietzsche nella quarta parte del suo Zarathustra. Il profeta del Superuomo incontra un vecchio stanco, dal volto pallido ed emaciato ch’egli definisce «A riposo» (Ausser Dienst). Egli venera ancora il vecchio Dio e Zarathustra gli comunica: «Basta un Dio così! Meglio nessun Dio, meglio farsi il destino con la proprie mani, meglio essere noi stessi Dio».

Ciò che mi lasciava più perplesso era quel «Papa di Occidente». I primi papi, a partire da S. Pietro, non erano occidentali, ma orientali. Dopo il periodo delle persecuzioni, i cattolici si sono impadroniti dell’Impero Romano e, assumendo la filosofia greca e il diritto romano hanno creato l’Europa. Una Europa che aveva all’inizio un nome diverso: Cristianità.

Ma l’occidentalità della Chiesa cattolica era certo un fatto, ma non una coincidenza. Il papa, anche se per natura e struttura è prevalentemente un occidentale, non è solo questo. La sua missione e la sua vocazione sono il mondo intero (urbi et orbi). In tal senso non può esistere un «papa di occidente», ma solo un papa universale che è anche e forse soprattutto di occidente.

Tutti i papi, compreso Francesco, che sarebbe inadeguato dichiarare «Papa extraoccidentale», anche se ha introdotto nella sua strategia pastorale un forte interesse per i continenti diverso da quello Occidentale. Forse quel titolo «ultimo papa di occidente» potrà anche crescere l’interesse e le vendite. Ma giustamente lo stesso autore lo ha fatto seguire da un punto interrogativo. Che non è solo un dubbio, ma anche una speranza: nel futuro, vedremo, perché è nelle mani di Dio.

L’opera ha una sua sicura utilità. Essa ripercorre il «lucido pellegrinaggio» di Ratzinger in mezzo secolo di insegnamento, da quando era professore a Tubinga sino alle dimissioni. Già negli anni giovanili, nel discorso radiofonico del Natale 1969, egli aveva annunciato il collasso contemporaneo del mondo cattolico e dell’Europa. saggi, conferenze, interviste, davvero non poche in cui egli ha messo in guardia la cristianità e l’Europa dalla sua ormai avanzata decadenza, spirituale e morale.

Ratzinger comprese subito la cesura anticristiana del ’68, le incertezze e confusioni del Concilio Vaticano II, il trionfo del cattocomunismo, l’invasione del fanatismo islamico, il rifiuto dei fondamenti tradizionali del cristianesimo e l’accettazione di prassi relativistiche come il divorzio, l’aborto, il matrimonio omosessuale, la biologia disumana, l’eccezionale aumento del potere materiale dell’Occidente parallelo alla sua sempre più diffusa insicurezza culturale.

E tutti capirono che le dimissioni da papa erano la logica conclusione di una sfiducia diffusa nella forza della Chiesa cattolica, ormai «piena di sporcizia», di riprendersi e di riproporsi. In altre parole aveva capito che tra cattolicesimo e spirito europeo era avvenuta un separazione.

 

La buona battaglia del soldato Ratzinger. L’ultimo papa d’Occidente, di Aldo Maria Valli, «www.aldomariavalli.it», 5 maggio 2020.

Mentre in Germania esce il libro di Peter Seewald Benedikt XVI. Ein Leben (Benedetto XVI. Una vita) nel quale c’è un’intervista al papa emerito che sta facendo molto discutere, in Italia l’editore Liberilibri di Macerata propone L’ultimo papa d’Occidente? di Giulio Meotti (pagine 116, 14 euro), opera completamente diversa da quella di Seewald, ma non meno importante per decifrare Joseph Ratzinger e cogliere la portata del suo pontificato.

Nell’intervista a Seewald, secondo le anticipazioni, Benedetto XVI parla del matrimonio omosessuale e dell’aborto come di realtà rese possibili dal potere spirituale dell’Anticristo, e ovviamente la maggior parte dei commenti si è concentrata su queste espressioni forti.

“Cento anni fa – argomenta il papa emerito – tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale” mentre oggi, al contrario, “se uno si oppone” a tutto questo, “viene punito dalla società con la scomunica”. Idem per quanto riguarda “l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio”.

Nel colloquio con Seewald il papa emerito tocca anche il tema dei lupi che lo hanno azzannato nel corso del suo pontificato e dice che “la vera minaccia per la Chiesa e quindi per il ministero petrino” non sta tanto negli scandali interni e nelle manovre della curia romana, “bensì nella dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo”.

In queste parole c’è l’eco di quelle che l’allora cardinale Ratzinger pronunciò nella Missa pro eligendo romano pontifice alla vigilia del conclave del 2005, quando disse: “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Nichilismo e relativismo, molto accorti nell’identificare il pericolo, misero Ratzinger nel mirino. Di qui il dramma del suo pontificato, tutto giocato a difesa della vera fede e della vera Chiesa ma sempre sotto l’attacco di lupi famelici (esterni e interni alla Chiesa) intenti a distorcere, screditare, delegittimare.

Di questo dramma del Ratzinger teologo e papa si occupa appunto il libro di Giulio Meotti, ben più piccolo nel formato rispetto al volumone (1184 pagine) di Seewald, ma denso di contenuti. Un excursus nel pensiero ratzingeriano per mostrarne il filo conduttore: un confronto serrato con la modernità, senza esclusione di colpi.

Sottolineare che la Verità esiste ed è indagabile alla luce della ragione umana, dimostrare che le fedi non sono tutte uguali, mettere in luce le radici cristiane dell’Occidente, denunciare il processo di auto-dissolvimento della nostra civiltà: questa, in sintesi, la missione che Ratzinger mise al centro del suo pontificato. Che è come dire andare incontro al disastro, considerata la barbarie dominante. Ma il papa bavarese, gentile e timido, decise di immolarsi. Un martirio in senso letterale, ricordando che martire viene dal greco μάρτυς, mártus, ovvero testimone.

Stando così le cose, era fatale che Benedetto XVI (significativa la scelta del nome: san Benedetto, il patriarca del monachesimo occidentale) venisse attaccato, e sconfitto, dai nuovi barbari. Ma la sconfitta attribuisce una dignità e, direi, una solennità ancora maggiore alla sua testimonianza da martire della vera fede.

Difendendo la fede e la Chiesa, Benedetto XVI ha difeso il nostro pensiero, ci ha ricordato chi siamo e da dove veniamo, ci ha mostrato la bellezza e la ricchezza della nostra tradizione culturale e spirituale, ci ha invitati a considerare l’insensatezza della volontà di suicidio da cui l’Occidente è attanagliato. Ma noi non potevamo capire. Ormai in preda alla barbarie, abbiamo scherzato sul papa “pastore tedesco”, lo abbiamo insolentito con la nostra rozzezza intellettuale, lo abbiamo accusato di non sapere leggere i “segni dei tempi”, lo abbiamo perfino censurato. Quando c’è un confronto tra sapienza e ignoranza, tra gentilezza e arroganza, tra acutezza e grossolanità, si sa come va a finire: la muta di cani urlanti vince sul fine pensatore. Almeno in termini umani.

L’immediata vigilia del conclave del 2005 fu segnata, oltre che dall’omelia citata poco fa, dalla memorabile conferenza che Ratzinger tenne a Subiaco, al monastero di Santa Scolastica, quando gli fu consegnato il Premio San Benedetto per la promozione della vita e della famiglia in Europa.  Intitolata L’Europa nella crisi delle culture, quella conferenza fu un inno alle nostre radici cristiane e denunciò, come sempre con la massima libertà intellettuale, il nuovo “moralismo” – così lo definì Ratzinger – “le cui parole chiave sono giustizia, pace, conservazione del creato”, parole-talismano che però non dicono nulla e servono solo per essere accettati al gran ballo delle idee correnti. “Che cosa significa giustizia? Chi la definisce? Che cosa serve alla pace?”. Queste le domande che pose Ratzinger, con la delicata schiettezza tipica dell’uomo di studio che non conosce convenienze politiche e di comodo. E viene quasi da piangere pensando che proprio questo moralismo domina oggi la scena nell’ambito cattolico. Per essere ammessi al gran ballo, abbiamo venduto l’anima, o per lo meno quel poco di anima che avevamo.

Poi, quando divenne papa, Ratzinger punteggiò il suo pontificato con altre lezioni che andrebbero rilette e rimeditate continuamente, come il discorso al Collège des Bernardins di Parigi, come la lectio magistralis su Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, tenuta all’Università di Ratisbona durante il viaggio nella sua Baviera, come le parole rivolte alle autorità civili nella Westminster Hall, come il discorso che scrisse ma non poté mai pronunciare all’Università La Sapienza di Roma, dove un manipolo di facinorosi impedì l’ingresso del papa in un ateneo fondato proprio da un pontefice.

Per chi, come il sottoscritto, seguì passo passo, da cronista, il pontificato di Benedetto XVI, quegli anni furono un’avventura intellettuale e spirituale senza pari, un tuffo nelle acque cristalline dell’intelligenza cristiana. Ma furono anche anni di pena, perché dietro e accanto a ogni parola e a ogni iniziativa del papa c’era sempre in agguato una becera contestazione, un attentato alla logica, un pretesto per scatenare la polemica, un’insidia esterna o interna. Lo si vide bene nel caso di Ratisbona, quando le riflessioni del papa su fede e ragione furono usate per aizzare il conflitto con l’Islam.

“Si ha l’impressione generale che negli ultimi quattro secoli la storia del cristianesimo sia stata una continua battaglia di ripiegamento”, scrisse Ratzinger, come opportunamente ricorda Meotti, nel libro Riflessioni sulla creazione e il peccato. Ebbene, il soldato Ratzinger, pur consapevole che nei confronti della modernità montante c’era solo da arretrare, neppure per un giorno smise di combattere. Salvo poi farsi da parte. Perché?

Qualcuno dice che la risposta sta nel tratto caratteriale di Joseph Ratzinger.

Fece così nel 1969, quando lasciò la caotica Tubinga in preda alla contestazione studentesca e se ne andò nella più tranquilla Ratisbona. Fece così nel 1974, quando, senza dire una parola, abbandonò il Sinodo di Würzburg orientato in senso filo-protestante. E lo ha rifatto nel 2013, quando ha rinunciato al pontificato attivo. Non si tratta, spiega Seewald, di fughe, ma di decisioni razionali, presa ogni volta che Ratzinger si rende conto che non c’è altro da fare per non diventare cooperatore del Male. E non dimentichiamo che Cooperatores veritatis è in effetti il motto di Benedetto XVI, inserito nello stemma del papa.

Scrive Meotti: “Tutto il pontificato di Ratzinger è stato una difesa della civiltà occidentale o, più semplicemente, dell’Occidente. Ma non c’è una sola sfida da cui Ratzinger sia uscito apparentemente vincente”. È vero. Nichilismo e relativismo hanno vinto.  E vengono alla mente le parole del Vangelo di Giovanni: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”.

In fondo, siamo stati avvertiti.

 

Le prediche di Ratzinger nel nostro deserto spirituale, di Corrado Ocone, «il Giornale», 17 aprile 2020, pag. 26.

Schivo e appartato come è nel suo carattere, lontano dai riflettori, Joseph Ratzinger compie oggi novantatre anni. Di anni ne son passati sette invece da quando lasciò volontariamente il seggio di Pietro.

A succedergli è stato un Papa che con lui ha poco da spartire, e non solo per il fatto che viene dal Sudamerica: più radicalmente perché ha una concezione del compito dei cristiani e della Chiesa cattolica nel mondo completamente diversa da quella del predecessore. Così diversa da porsi tendenzialmente, secondo alcuni, al di fuori della dogmatica per molti aspetti.

Tanto che Giulio Meotti, uno dei più bravi giornalisti italiani, non esita a chiedersi, nel titolo di un’agile monografia su Ratzinger appena pubblicata da Liberilibri, se Benedetto XVI non sia stato l’ultimo rappresentante di una tradizione bimillenaria: L’ultimo Papa d’Occidente? (pagg. X+108, euro 14, introduzione di John Waters). Le sue dimissioni assumerebbero in quest’ottica un altro aspetto: quasi che, avendo provato invano a salvare una scialuppa che faceva acqua da tutte le parti, egli a un certo punto si fosse reso conto di essere troppo debole per corrispondere all’improbo compito affidatogli dalla Provvidenza, nelle cui mani si è rimesso. In ogni caso, il libro di Meotti, che è una sorta di raffinata biografia intellettuale del pontefice emerito, muove da una domanda precisa: non tanto chi egli veramente sia stato, quanto come abbia concepito il suo ruolo e quale compito si sia dato nella sua vita di studioso e di alto prelato. Il tutto, facendolo parlare direttamente, riportando stralci significativi dei suoi discorsi e dei suoi scritti.

Meotti si orienta benissimo in una mole impressionante di opere e mostra come il Papa tedesco abbia compreso da subito che il declino dell’Europa e quello del cristianesimo erano le due facce di una stessa medaglia. Il relativismo, contro la cui «dittatura» quasi con ossessione si è rivolto sempre il suo impegno, non è che il destino tragico e paradossale a cui ha condotto, radicalizzandosi, la mentalità illuministica. La decristianizzazione in atto mette faccia a faccia l’uomo con quel nulla di senso, il nichilismo, che Nietzsche aveva già intuito alla fine dell’Ottocento e che è alla base ogni crisi particolare che stiamo vivendo (economica, sociale, culturale, politica, di prospettive). In questo deserto spirituale («desertificazione» è una parola che ritorna spesso nelle sue opere), l’unica speranza è creare piccole comunità di resistenza e da lì provare a tessere i fili di una possibile rinascita.

È ciò che fece San Benedetto da Norcia (al quale non a caso Ratzinger col suo nome ha voluto richiamarsi da Papa), creando i suoi monasteri sul finire di quell’Impero romano che, con il suo lento declino, molto assomiglia all’Occidente di oggi. Fu in quei monasteri che, nel periodo delle invasioni barbariche, si conservò l’antica cultura greca e romana, la si cristianizzò, e la si fece transitare nei nuovi tempi. È lì che nacque l’Europa che, per l’«europeista» Ratzinger, o sarà cristiana o non sarà. Ragione, diritto e fede – o, come dice spesso nei suoi discorsi, Atene, Roma e Gerusalemme – sono i tre pilastri di una sintesi virtuosa su cui si è costruita la nostra cultura. Pensare di affidarsi, come ha voluto l’illuminismo, alla sola ragione, con il suo potere corrosivo e distruggitore di ogni tradizione, non porta che a negare chi e ciò che siamo. E da questo punto di vista le polemiche, puntualmente ricostruite da Meotti, suscitate dal discorso di Benedetto XVI a Ratisbona contro l’islamismo, oppure la pervicacia con cui gli si negò un intervento alla «Sapienza» di Roma, sono altamente significative. Cosa è altro, quel politicamente corretto razionalistico a cui Ratzinger tante volte si è opposto con l’inattualità del suo messaggio, se non una forma subdola e soft di totalitarismo?

Da questo libro, fra tanti spunti e considerazioni spesso illuminanti, emerge con forza l’idea che ci porta a vedere nella sintesi fra ragione e fede operata dal cristianesimo l’origine stessa delle nostre libertà liberali. Perso il primo, non potremo che perdere anche le seconde. E forse ci siamo già arrivati.

 

L’ultimo papa d’Occidente?, di Camillo Langone, «Il Foglio», 17 aprile 2020, pag. 2.

Il punto interrogativo del titolo è l’unica speranza contenuta nel nuovo libro di Giulio Meotti, L’ultimo Papa d’Occidente (Liberilibri). Un po’ di sano pessimismo ci voleva, dopo il vitreo ottimismo di chi enfatizza gli ascolti delle liturgie televisive (cristianesimo ridotto a spettacolo per gente che non ha nulla da fare). L’ultimo Papa è ovviamente Benedetto XVI che Meotti delinea come intellettuale tedesco, in rapporto con Habermas e, chi l’avrebbe detto, con Nietzsche. Ratzinger come profeta a cominciare dal tristissimo discorso radiofonico del Natale 1969 in cui annunciò il collasso cattolico. Ratzinger come dissidente, sconfitto nel mondo e nella Chiesa dal relativismo che aveva combattuto. “Altri pontefici verranno ma rischiano di essere post-europei e post-occidentali, perché l’Europa che ha prodotto Ratzinger sta morendo. Ci sono ormai più battesimi nelle Filippine che in Francia, Spagna, Italia e Polonia messe insieme”. Resta quel punto interrogativo che si erge solitario contro tutti i numeri, contro tutta la bibliografia del libro: un punto interrogativo che è la speranza teologale, la preghiera per un miracolo.