Peisithanatos. Trattato della buona estinzione

L'intero genere umano, un flop catastrofico, viene invitato a una dignitosa eutanasia come gesto etico ed estetico.

Pagine 168

ISBN 9788898094882

Prima edizione 2021

Il prezzo originale era: 14,00 €.Il prezzo attuale è: 13,30 €.

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Il Peisithanatos s’innesta con stile novo-classico nella storia di pessi­mismo e nichilismo. Concepito prima della pandemia, ne trae l’ultimo conforto. Ora è lecito dire che la scienza non sa, l’economia non salva, l’infosfera non informa; che le nazioni, affratellate a parole, perman­gono in una guerra silente; che lo Stato, nel nome ipocrita della sopravvivenza collettiva, legifera il sa­crificio dei singoli; che il prossimo è bava agli angoli della bocca d’un arruffa­popolo; che il futuro è fosco e il buon Dio o non esiste o è pessimo. Occorre prendere atto una volta per sempre che l’uomo non ha compiuto alcun passo etico dagli ominidi suoi avi, è un catastrofico flop. Sarebbe dunque meglio per lui – meno importuno – finire presto assieme alla vita, la nostra gran burattinaia: intombarli ben bene qui sulla Terra, anziché desiderare un Cosmo di suprema perfezione abiotica.

Quell’atomo opaco del male, di Andrea Camprincoli, «Libero», 13 luglio 2021, pag. 26.

“Commencement de la fin. Piaccia o no, l’unico miglioramento possibile per l’uomo è l’estinzione, l’andarsene alla chetichella senz’ovazioni né piagnistei, essendo issofatto un essere malvagio e immedicabile, come fin troppo ampiamente dettaglia la sua storia e ancor prima genealogia dall’Australopithecus afarensis in qua”. E’ questo l’incipit  folgorante che ci introduce a un testo tra i più avventurosi e spericolati della filosofia contemporanea, per l’onestà, la fierezza e l’intrepido coraggio nell’affrontare il pensiero pessimistico. Il titolo mette già i brividi: “Peisithanatos. Trattato della buona estinzione” (Liberilibri, pp.152, euro 14) di Marco Lanterna. Autore affermato e traduttore, compone questo saggio filosofico prima della pandemia, con uno stile unico, sui temi classici del pessimismo e del nichilismo. Usciti – non ancora del tutto – da questo lungo periodo devastato dal morbo, ci si interroga sui temi della vita e della morte con più convincimento.

“Memento mori” ricorda l’antica locuzione latina, “ricordati che devi morire”. Fin dal momento della nascita si decreta la nostra dipartita. “Non la morte, né l’esistenza, ma la nascita – l’infausto evento – dovrebbe sbigottire gli uomini”. E ancora “Il genetliaco ne è il primo, più esatto più toccante necrologio, l’ascoso anagramma della morte”, scrive Lanterna.

Come fanno quei poeti che declamano il dolore, l’autore espone tesi da far impallidire. Dalle pagine del suo libro emerge il meglio del meglio di tutto il pensiero pessimistico. Dalla natura matrigna di Leopardi a “quell’atomo opaco del male” che è il mondo nei versi di Pascoli.

Come sanno intuire la verità i poeti, il trattato di Lanterna pone interrogativi ribaltando il senso comune dell’esistenza. E se la vita fosse un accidente involontario? “La vita vien fuori da brodetti, tiepidi pozze, acquitrini primordiali: origini putride e graveolenti”. E l’uomo, tal siffatta creatura, è fatta per amare?

“S’i fosse foco arderei lo mondo”, così scriveva Cecco Angiolieri nel Canzoniere. Della stessa forza ribelle è animato il libro che proprio non anela ad alcun lieto fine. Marco Lanterna suggerisce una nuova strada. La più audace che sia mai stata indicata al genere umano, partendo da una domanda: è se il mondo non fosse stato fatto perché l’uomo ne diventasse il padrone, visto quanto avversa la Natura si sia dimostrata all’essere umano?

Un testo che meriterebbe di essere declamato a teatro per la musicalità delle parole, una lirica erudita e al tempo stesso disinvolta.

“La filosofia nova, abiotica e lunare del Peisithanatos” scrive l’autore non ammette la speranza di alcun miglioramento per il genere umano. Nonostante la voce narrante del testo si chiami il “Persuadimorte” è un richiamo fortissimo alla vita, ai testi dei migliori moralisti francesi.

Non si può cercare di capire cosa sia la vita senza capire cosa sia la morte.

“Pulcherrimum nihil” definiva il mondo Silesius. “Smalto color fucsia sopra le unghie da tagliare”. Così Lanterna scrive con una prosa sinuosa e fluida da fare invidia ai più illustri scrittori.

 

Estremo e senza consolazione il pessimismo di Lanterna, di Cesare Cavalleri, «Avvenire», 12 maggio 2021, pag. 31.

 

Col terrificante titolo Peisithanatos, interpretato come “Persuadimorte”, Marco Lanterna ha pubblicato un libro che il sottotitolo Trattato della buona estinzione non rasserena (Liberilibri, pp. 168, euro 14). È una raccolta di pensieri, come di aforismi ingranditi, separati da un semplice stacco, senza divisione in capitoli. Ed è lettura gradevole per quanto è ben scritto. È una rassegna di “filosofia pessimistica”, basata sull’assunto che «L’orrore del Cosmo per la vita è fin superiore a quello che esso nutre per il vuoto»; «Non tutto nel Cosmo [altrove chiamato anche “Natura”] è male, solo noi; non tutto nel Cosmo muore, solo noi». Da qui l’auspicio della «buona estinzione». Sergio Solmi, in una fulgida poesia del 1952, di fronte «al rigore architettonico come di tela neoclassica» del paesaggio urbano (milanese), scriveva: «Invece / cancellarmi vorrei, tanto mi sento / un estraneo accidente in queste splendide / tue geometrie, non più che una confusa / pena, una macchia, un vagabondo errore». Ma Solmi era un poeta che incolpava sé stesso, non l’architettura, e i poeti ne sanno più dei filosofi. Lanterna, che si dice allievo di Anacleto Verrecchia e di Sossio Giametta, gareggia in pessimismo con Guicciardini e Leopardi, e cita l’abate Galiani, Francesco Algarotti, Daniello Bartoli, Saverio Bettinelli; dei greci preferisce Biante di Priene e altri frammentisti, ma ogni tanto (inevitabilmente) gli sfuggono espressioni della metafisica classica, come «verità», e perfino «il fondo ontologico di tutta la realtà». Viktor E. Frankl, l’inventore della logoterapia, spiazzava i pazienti che gli esprimevano i pur fondati motivi del loro pessimismo, con questa domanda: «Perché non si suicida?». L’interpellato gli esprimeva motivi come le proprie responsabilità familiari e professionali, magari addirittura il pensiero di non abbandonare il cagnolino che gli teneva compagnia. Non era istigazione al suicidio: da quei motivi Frankl partiva per ricostruire con il paziente il senso della vita. A pagina 117, Lanterna confessa di «aver spesso immaginato di comporre un libro di correzioni agli ultrapessimisti, dove cioè questi appaiono troppo ridenti o badiali… eccolo qua». Ecco un appiglio che Frankl avrebbe saputo sviluppare: l’urgenza di scrivere il libro. Che il Persuadimorte sia un libro antifrastico, cioè che dica una cosa per affermare il contrario? Non proprio, perché a Lanterna manca l’ironia indispensabile all’antifrasi come quando si dice «Bella giornata, oggi», mentre piove a dirotto e si era programmata una gita. Si può dare, però, del Peisithanatos una lettura antifrastica, cioè utile a comprendere il pessimismo per allontanarlo. Magari cominciando a ragionare anche sul significato della libertà che Lanterna non considera affatto. C’è un’esplicita citazione evangelica: «È vero coll’Evangelo che malgré tout dobbiamo amare il prossimo nostro, ma occorre sempre distinguere tra il prossimo prossimo – i simili – e il prossimo remoto – gl’imbecilli». Veramente il Vangelo dice di amare perfino i nemici, peraltro più facili da amare che non gli imbecilli.

 

Il virione tossico della scrittura. Peisithanatos di Marco Lanterna: un viaggio ragionato nei fallimenti della condizione umana, di Salvatore Marrazzo, «Il Quotidiano del Sud», 1 maggio 2021.

 

Ora è lecito dire che la scienza non sa, l’economia non salva, l’infosfera non informa; che le nazioni, affratellate a parole, permangono in una guerra silente; che lo Stato, nel nome ipocrita della sopravvivenza collettiva, legifera il sacrificio dei singoli; che il prossimo è bava agli angoli della bocca d’un arruffapopolo; che il futuro è fosco e il buon Dio o non esiste o è pessimo. Occorre prendere atto una volta per sempre che l’uomo non ha compiuto alcun passo etico dagli ominidi suoi avi, è un catastrofico flop. Una premessa è utile farla subito. È difficile uscire indenni da questa densa e breve opera. Certo i libri possono sempre esploderci tra le mani, lo scriveva bene Cioran, ma qui la deflagrazione è certa. I possibili lettori sono avvertiti. Il libro pianifica, auspica, ambisce a una prossima fine non dell’uomo, ma della vita in tutte le sue forme possibili o immaginarie. Piaccia o no, scrive Lanterna a inizio trattato, l’unico miglioramento possibile per l’uomo è l’estinzione, l’andarsene alla chetichella senz’ovazioni né piagnistei, essendo issofatto un essere malvagio e immedicabile, come fin troppo ampiamente dettaglia la sua storia e ancor prima genealogia dall’Australopithecus afarensis in qua. Più in genere la vita sulla Terra – quest’aiuola che ci fa tanto feroci – sarebbe auspicabile finisse una volta per tutte: dinosauri, uomini, e forse un domani scarafaggi, non sono pupilli di cui menar vanto al cospetto d’un cosmo abiotico e supercilioso. Il Peisithanatos è un congegno bellico. Pernicioso. Febbrile. E di là dagli scopi, o dalle interferenze, esso risucchia di un linguaggio animoso, spumeggiante e naturalmente diretto. A tratti, ricorda l’effervescenza di un Gadda o il manierismo dell’inarrivabile e beffardo Manganelli. Per non dire di tanti altri citati letterati. O uomini d’ingegno. Traiano Boccalini o Antonio Vignali. E anche imperatori. Settimio Severo con la sua più famosa citazione: omnia fui, nihil expedit. Fui tutto, ma niente vale la pena. Il libro si dà come una raccolta di piccole e condensate prose, quasi fossero gnomiche scritture d’altri tempi e, a tal proposito, il lettore deve armarsi di buoni manuali, vocabolari e di grande concentrazione sia per la varietà e la ricchezza dei temi, letterari, editoriali, filosofici, politici, giurisprudenziali e quanti altri, sia per l’uso di un lessico insolito, paradigma di uno stile del tutto affilato e originale. Erudito. Tagliente. Caustico. Tossico. E ciò senza perdere di tensione morale né auspicio di vedere affondare il mondo e con esso la vita. Sicché è ora di tirare in barca i remi della politica attiva (e ahimè pur della filosofia) per lasciarlo andare alla deriva sopra questa gran zattera medusea: l’uomo non va cambiato, cosa impossibile e fin caricaturale, ma solo cancellato, cosa possibile e fin auspicabile. Senza dubbio, quella del Selbstdenker Marco Lanterna, è un’espansione negativa fissata nella migliore tradizione di una letteratura speciosa. Di una filosofia asistematica, emissaria o agente del niente. E di una posa antiaccademica e assolutamente postillatrice. Scettica e barricadiera. Cinica e scorretta. Pessimistica all’ennesima potenza. Ironica. Occorre dunque – almeno in questo libercolo epocale – trarre il buonuomo dalla polvere dopo tante busse, sistemargli il collo della giacchetta e lo sbuffo del cravattino, per festeggiarlo – quale astro caduto – tra le stelle di san Lorenzo. Insomma un Peisithanatos che varrebbe la pena indicarne ogni rigo. Una corposità di pensieri folgoranti. Abissali. Duri. Malvagi. E tutti a indicare l’ignominioso fallito che è l’uomo. Ciò perché il mondo – questo spicciativo consorzio del noi – fa di tutto per smembrare lacerare triturare ridurre in polvere il singolo. Così lo spocchioso e inconcludente sapere universitario fatto di peer review e altre ignominie. O la scienza che si atteggia a prima della classe. E che non spiega una lacrima, scrive Lanterna, in modo migliore di un lirico marinista. E comunque non si salva l’arte. Nemmeno la poesia o la filosofia sebbene accedano in qualche maniera, a colpi d’intuizione al mistero della vita, al suo naos, che si rivela poi essere una latrina turca. Cioè il sapere, come pare e traspare, procede per coordinate retoriche più che con logiche sillogizzanti. Le metafore soprattutto. Tuttavia l’uomo è in ciò che egli realizza e profana. L’uomo cade. Il moralista è un Icaro che si brucia le ali e non può che abbassarsi, anzi sprofondare. Un libro questo Peisithanatos che non lascia spiragli. I migliori moralisti, anche i più sprezzanti, sanno che l’uomo è condannato alla malvagità, come a dire che l’è suo malgrado. È un cane rabbioso a cui non si può imputare più di tanto la schiuma alla bocca, pertanto sopprimerlo è un gesto di dovere e insieme di pietà. Un libro crepitante. Piroclastico. Feroce. Che marchia a fuoco. Un’opera atipica. Senza appellativi o attenuanti generiche. Che dire ancora? Se arrivate alla fine del libro, vuol dire che siete ancora vivi. Il che è tutto dire per iniziare daccapo questo gioco al massacro che è la vita.

 

 

Il pessimismo “lunare” di Marco LanternaNotizia del “Peisithanatos. Trattato della buona estinzione (Liberilibri, 2021), di Piercarlo Necchi, Grial, Página dela Sección Española Internacional Philipp Mäinlander, aprile 2021.

 

A tutti gli amici e i “simpatizzanti” del Keiron-Club (il Circolo del Peggio) porto felicemente la notizia della recente uscita del libro del Selbstdenker Marco Lanterna, Peisithanatos. Trattato della buona estinzione (Liberilibri, Macerata, 2021).

L’opera – che si presenta nella forma della raccolta di frammenti e aforismi – costituisce la più recente perla (nera) nella tradizione del pensiero pessimista “antico-nuovo” e merita di essere iscritta a pieno titolo in quel “canone del peggio” che è forse la linea più originale e più propria (meno dipendente da correnti-movimenti di pensiero transalpini a Nord-Nord Ovest), ancorché minoritaria, del pensiero italiano: da Leopardi a Michelstaedter e Giuseppe Rensi, da Guido Ceronetti (in parte) a Manlio Sgalambro.

Il nucleo soggiacente di pensiero, il teorema implicito del libro – infatti – è sempre il medesimo dal detto di Sileno a Cioran e oltre: l’“inconveniente di essere nati” (e vivi). E quelli che Lanterna svolge sono i suoi corollari necessari. Compiendo però una mossa decisiva che stoppa a priori la consueta critica del pessimismo come la pretesa (che Nietzsche considerava “comica”) di giudicare e (s)valutare il Tutto. Come in un “collasso gravitazionale” filosofico e in una “paradossale reductio ad nihilum”, Lanterna “minimizza” il “tutto è male” di Schopenhauer-Leopardi & Co. e riconosce che “non tutto nel Cosmo è male, ma solo noi; non tutto nel Cosmo muore, solo noi”. Per mettere capo, coerentemente, a una sanzione senza appello della “negatività” della vita (di ogni forma di vita) e a una strage massiva di tutte le residue illusioni sull’uomo, della cui evoluzione, storia, politica, arte, religione, sapere, viene decretata l’inesorabile “nullità”. La “nada”.

Temi e idee antichi-nuovi, appunto, ma nella difficile arte della variazione l’essenziale restano sempre l’invenzione e l’espressione.

E l’immaginazione di Lanterna è un fuoco d’artificio continuo di figure, analogie e metafore sempre originali e talora inaudite: come quella dell’ “immane corpo-tonneau” del Cosmo “abiotico perché anti-biotico”, della “sostanza divina” dei tempi andati come “vulcano d’energia eruttaforme”, del nostro “sistema solare di provincia” o dello stile “tombolistico della Morte”. O come quando, a proposito del “dimenticato retaggio antropomorfico” dei concetti della metafisica, si dice che “se un polpo potesse filosofare, probabilmente frazionerebbe l’essere in otto”. Sono solo alcuni esempi, che si potrebbero moltiplicare tanti se ne trovano quasi in ogni pagina e nei quali si avverte anche il mood “ghignante” e “ilaro-tragico” che impregna molti dei pessimismi-nichilismi “mediterranei” da Gorgia di Lentini alla “velenosa fungaia” delle Operette morali di Leopardi (a riprova – come scriveva quest’ultimo – che “terribile e awful è la potenza del riso”).

Quanto alla lingua e allo stile – pensando a come si scrive oggi per lo più – quelli di Lanterna, forgiati sul berillo o l’alabastro dei grande moralisti “classici” (di cui è raffinato studioso e traduttore), suonano come letteralmente provenienti da altrove. Preparatevi ad aprire più d’una volta il dizionario.

Un libro fatto di frammenti è natura sui non-riassumibile.

Se c’è una cosa, però, tra le molte, che mi si è fissata in testa è questa.

Nel suo Canto notturno, il pastore errante dell’Asia di Leopardi rivolge alla “silenziosa” Luna una serie incalzante di sempre più abissali interrogativi, i quali – reducti ad unum – si risolvono in un’unica lancinante domanda di senso. La Luna, ovviamente, tace. (Lo stesso accadeva – forse a motivo di una certa coappartenenza essenziale tra ‘interrogare’ e ‘poetare’ – all’Islandese della famosa Operetta nel suo incontro con la Natura, la quale, rispetto all’interrogatorio e alle accuse che le venivano rivolte, se la cavava come un imputato che si appella al Quinto Emendamento).

Tutt’altro e originale il punto di vista del pessimismo lunare di Marco Lanterna, che – per così dire – si fa lunariano e non domanda, ma guarda e giudica la vita sub specie Lunae. E dai “mari tranquilli”, dalle “vette vergini”, dal “suolo ancor soffice e brullo”, dalle “fosse inesplorate”, nell'”albedo modesta” di questa “zitella fortunatissima” per essere scampata all'”atroce sfiguramento dell’organico”, il bio-negativo “Persuadimorte” (questo il significato del titolo in greco, che era poi l’epiteto attribuito all’edonista tragico Egesia di Cirene) può fermamente emettere il suo “lunatico not to be“. Id est: “E’ di gran lunga preferibile un bel nichts” all’”accidente-incidente” di questa vita.

Confermando ex post la definizione di Gottfried Benn del “pessimismo esistenziale” come “dichiarata tendenza alla distruzione del germe vitale”, non resta allora che esplorare e fantasticare le vie e i modi possibili di una “buona estinzione”.

Una volta Giuseppe Rensi scrisse che “il grandioso sforzo di Spinoza fu quello di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà [della Substantia infinita sive Deus sive Natura] se essa ne possedesse”. Di intuire le cose “sub specie aeternitatis”. Il conatus di Lanterna è invece quello di guardare questa vita con gli occhi della Luna.

E non è un bel vedere, questo è chiaro.

 

Marco Lanterna e l’ambita Estinzione, di Annalisa Presicce, «Pulp Libri», 22 marzo 2021.

 

Partiamo dalla fine: il Peisithanatos non è verbo per tutti, uno di quei confortanti libricini con cui ci si trastulla a fine giornata, suggendone alle mammelle sollievo da ubbie o tamponanti garanzie di riscatto, come si fa con certi veloci antireumatici da banco, con qualche assuefacente ansiolitico barattato coi rimasugli dello spirito o con qualche comoda (fin troppo) Bibbia tascabile e sue gemelle. Qui non ci troverete alcun remedium o dozzinale pozione che possa farvi dimenticare della vostra miseria radicale, del vostro trascinarvi epilettici nella trama demoniaca dei sempiterni amari tempi, dell’immarcescibile e pur marcescente «iattura del βίος»; vi tocca patirli senza troppi immaturi piagnistei e con l’impassibile vigore del marmo del Laocoonte: con nobiltà, attributi e intenzione stoica. Il Peisithanatos è dunque per chi non teme l’implacabilità dello specchio e preferisce ai piumacci, imbottiti fino a scoppiare di favoleggiamenti e altre amenità, il funereo punzecchiare del becco del corvo alle carni, memento del loffio casuale recinto in cui vi capitò d’esser gettati (l’eccezionalmente biotico del “si vivacchia”) e della pasta che vi modellò, tra tutte la più indesiderabile, quella guasta e grassa e grave del male.

La vita, per cui Lanterna impugna la più ficcante delle tavolozze lessicali, non sarebbe la vermiglia e laccata ciliegina sulla torta di un gassoso, petroso e desolato universo, da benedirsi e per cui scomodare miracolosi interventi di generose mani ultramondane, bensì la sua tanfosa “muffa”, il plurimetastatico “carcinoma”, le sue accidentali concrezioni di “ruggine” e di “carie”, la necronarrazione dell’infausto orrore dell’ossidazione nelle cui sacche l’uomo, “l’accidente di un accidente, […] un orpello, una schiuma, dell’inutile cascame, il violaceo barbiglio d’una gallina”, nicchia come nicchia “l’acaro, il pidocchio, il sozzo microbo”: da parassita alla potenza. Questo “fesso di tre cotte”, questa “nientità” scriteriata, non solo non avrebbe ragioni per pretendere per sé, su questa Terra, un paletto di terapeutica giustizia (non è malato, è egli stesso il morbo o, nel dettaglio, la sua infiorescenza: la pustola), ma anche di pretenderlo in un dopo azzardando sensate architetture e maldestre metafisiche d’occasione: “fantasticherie”, “ghiribizzi”, “farneticazioni”. Nessun sistema coerente, denuncia l’autore, avrebbe le carte per sciogliere in qualche pia intenzione i guasti di tale condizione: il no lapidario è per ogni ordinata ontologia, ogni abusato determinismo, ogni disegno escatologico, mandando a farsi benedire i tre quarti della storia del pensiero. Le suona anche ai più audaci e pessimisti scolaretti di Schopenhauer che, a forza di reggere la prova con il Tutto, commisero l’errore capitale del depistaggio, del raggiro, del delirium oltre l’effettivamente esperibile, ovvero il disgraziato pasticcio dell’organico: dell’uomo e per l’uomo solo lo spazio ristretto del suo letamaio esclusivamente biotico, sorta di bolo rimasticato nel continuo rimpastarsi della vita e che, lungi dall’essere faccenda del Cosmo (semmai ne è la mosca molesta), da questo è rigettato come si rigetta una “facies pestica” o un’aberrante stortura.

L’uomo di Lanterna in breve è il miserabile e malvagio scempio universale, l’irrecuperabile per sostanza, uno scherzetto che simula belletti dissimulando l’impotenza che incarna e che, se non si crucciasse di “darsi un tono” con inoperabili logomachie da mercato, trionferebbe nell’ars macellaia al pari di certe fiere fameliche o di certe piante carnivore e infestanti, poiché il βίος, questo “supremo tossico”, voltola secondo l’unica folle legge del mors tua vita mea, dell’organico che resiste a sé stesso rimaneggiandosi gli scarti. Ebbene, di questa vita “fachiro, cortigiana e misirizzi”, di questa effervescenza caustica irreparabile, Lanterna esige la fine, l’estinzione, “il morire tutti insieme in un fiat”, perché se “è così e non può essere altrimenti, allora che la vita non sia! Ecco la soluzione! Occorre cioè fracassarla come Alessandro fece col nodo di Gordio, con la stessa mania geniale”, “mutare la Terra in un’altra Luna, gassarla, azotarla, scolorirne per sempre con degli acidi tecno-alchemici quel blu incantatore e malefico, l’ingannevole variopinto velame ai suoi laboriosi orrori”.

Questo manifesto dell’antibiosi totale cui immolarsi con eroico atto etico ed estetico, questo invito alla contraccettiva filosofia del non-nascere da preferirsi all’abortiva, si stende tra le carte dell’autore con la disarmante e dotta scrittura dei migliori inattuali, di quei tacitatori di altre voci che l’ottimo Franco Volpi chiamava “i rapaci”: Nicolás Gómez Dávila, Albert Caraco, Emil Cioran, di cui Lanterna conserva la volontà corrosiva, i feroci frizzi, le asperità delle immagini da digerirsi a suon di potenti gastroprotettori. Ma il Peisithanatos è anche un grande omaggio ai moralisti (come lo stesso autore dichiara), all’incisiva sprezzatura simil-rinascimentale di un Jean de La Bruyère, al loro procedere per frammenti, glosse e postille e intercalari rapsodici, come per negarsi il filo, la trama, il difetto del contabile, il rischio del “pompierismo filosofico” e delle ordinate tronfie analisi: “coerenza e non-contraddizione non c’appartengono; digressione, capriccio, eclettismo e zigzagamento sì”. Questo libro è tutto questo e molto di più, poiché non solo di quelli rifiuta ogni bizza d’indulgenza e arraffate pezzuole di Linus con la glaciale impassibilità del più indisposto dei contrattatori, ma li supera in bellezza col talento dei veri artigiani delle parole, dei poeti che rincorrono i segni come si rincorre un’intuizione, un’alveolare sonora, un diesis perfetto: al granito delle sue noterelle contrappone generoso la musicalità e pregnanza di un dizionario mai banale, del suo irriducibile scalpello che lavora rifuggendo ogni iato, elidendo l’elidibile, liquefacendo tra gli apostrofi forse anche la sua stessa possibilità di farsi finalmente discorso.

Se non vi riuscirà d’assorbire la ‘nietzscheana’ tracotanza di chi rigetta ogni idea grossolana col piglio dei dinamitardi, o ancora la quasi beckettiana sceneggiatura del Persuadimorte in cui l’unico imperativo vigente è l’adamantino essere ottimisti è da criminali, una cosa è certa: vi sarà impossibile non godere di una colta ars scribendi che lascia sgomenti come possono la rarità e l’eccezione e non riconoscere, nella lirica sonata a morto di Lanterna, la sbalorditiva efficacia di chi sceglie di anteporre al voluminoso il monumentale.

 

Contro natura e resilienza, un “Trattato della buona estinzione”, di Camillo Langone, «Il Foglio», 1 aprile 2021, pag. 2.

 

Marco Lanterna si ritenga fortunato per aver trovato un editore superliberale come Liberilibri. Fosse stato costretto a pubblicare il suo “Peisithanatos” con la Camillo Langone Editore si sarebbe dovuto rassegnare a un titolo meno pesante e respingente, magari in italiano. Nulla da eccepire sul sottotitolo, “Trattato della buona estinzione”, di questo piccolo libro densissimo che “perora la fine della vita sulla Terra, dell’uomo e di tutte le specie animali e vegetali”. Lanterna è autore eruditissimo, poliglottissimo, il cui umore è così ostentatamente nero da mettere allegria.

Aleggia Baudelaire, come quando scrive “di coloro che si fanno tatuare “resilienza” su quel corpo che marcirà sotterra roso dai vermi” (simili tatuati esistono davvero, ho scoperto). E soprattutto aleggia Leopardi perché in “Persuadimorte” (il titolo in italiano) sono tanti i passaggi contro la natura matrigna: “Il regno animale è un tripudio di fauci, artigli, chele, pungiglioni, stomaci che nemmeno il calar del Sole arresta”. E ancora: “Vivere in natura è un incubo e dei peggiori. L’uomo vi sopravvive solo alzando poderose barricate antropiche e ogni sorta di baluardo”. Non parlerei di un libro che mette voglia di suicidarsi: parlo di un libro che mette voglia di uccidere animali.