Stato d’eccezione, gestione della paura, pianificazione economica, potere dei tecnici, scientismo e complottismo, pensiero apocalittico, società della sorveglianza, ambientalismo radicale: tali sono le questioni intorno a cui ruota il nostro futuro. La lunga emergenza generata dalla pandemia ha portato le nostre società a confrontarsi con tendenze politiche, sociali e culturali che erano già in corso da tempo e che non possono più essere ignorate dai gruppi dirigenti o mascherate dalla coltre mediatica. L’intero sistema è stato così messo sotto scacco dal suo stesso funzionamento. In questo libro, Lorenzo Castellani mostra come il pendolo del potere rischia di oscillare pericolosamente tra un mite dispotismo e una nuova guerra civile.
Sotto scacco
L’era pandemica ha fatto sentire l'uomo sotto scacco, sotto pressione, diviso tra sacrificio e fuga, paura e speranza.
Pagine 132
ISBN 9791280447067
Prima edizione 2022
Il prezzo originale era: 14,00 €.13,30 €Il prezzo attuale è: 13,30 €.
La democrazia ai tempi del virus, di Stefano Folli, «la Repubblica – Robinson Libri», 12 febbraio, pag. 19
Lorenzo Castellani è un giovane studioso, insegnante di Storia delle istituzioni politiche alla Luiss-Guido Carli, che si occupa dei problemi legati all’evoluzione o, per meglio dire, all’involuzione dei sistemi democratici. In questi giorni è in libreria il suo ultimo saggio. La pandemia, con le sue ricadute sull’organizzazione sociale e sulla neo-cultura emergenziale, viene collocata nel quadro complesso riassunto dall’interrogativo: dove va la democrazia? Nel recente passato il modello era quello burocratico-manageriale che da una certa fase dell’economia di mercato si proiettava nel governo dello Stato. Oggi, spiega Castellani, siamo oltre: il Covid rischia di «farci cadere in uno stato d’eccezione leggero, ma di lunga durata e incerte conseguenze». La leva è costituita dalla paura: il timore del contagio diventa il denominatore comune alla base delle scelte e di fatto dei meccanismi dell’obbedienza. Per cui il peso crescente della tecnocrazia, che già aveva segnato lo sviluppo delle democrazie occidentali, si coniuga con nuove forme di dirigismo occhiuto in un “mix” un po’ inquietante. Non è la dittatura secondo lo schema novecentesco, s’intende, ma è qualcosa che si affida alle super-tecnologie moderne, oltre che alle angosce collettive, per condizionare le coscienze in modo diffuso eppure morbido. Così «il potere di polizia, patriarcale, paternalista ed eteronomo erode gli spazi d’autonomia dello Stato di diritto e dell’auto-governo». Si ritorna ancora una volta a Tocqueville e alla sua profezia, quando prefigura «un potere tutelare (…) assoluto, pervasivo, previdente e dolce». Nella storia dire “stato d’eccezione” significa infatti evocare una condizione lugubre e straordinaria: coincide, come è noto, col potere sovrano per eccellenza. Adesso invece saremmo in presenza di uno stato d’eccezione tanto debole quanto permanente. Siamo finiti “sotto scacco”: da cui il titolo di questo pamphlet, forse anticipatore di ulteriori studi dedicati a come cambia, e non in meglio, la forma e la sostanza della democrazia liberal-democratica. Sospesi sulla soglia di un pericoloso assolutismo di inedita fattura. Ma forse siamo ancora in tempo per invertire la rotta.
Sotto scacco. Verso il modello cinese?, di Alfonso Lanzieri, «Il Pensiero Storico», 8 febbraio 2022
Nel suo celebre libro L’operario, del 1932, Ernst Jünger descrive la figura del “borghese” come l’uomo che riconosce nella sicurezza «il proprio valore supremo e lo assume come punto di riferimento della propria condotta di vita». La potenza suprema, grazie alla quale egli vede garantita questa sicurezza è la ragione. In tal senso – spiega lo scrittore tedesco – l’inarrestabile progresso e la crescita della sicurezza individuale e collettiva sono per il tipo umano borghese quasi la medesima cosa, fino al punto tale da considerare il pericolo – in fondo elemento naturale della vita umana – addirittura come assurdo. «Ciò è visibile – scrive Jünger – nella vasta costruzione di un sistema di sicurezza, mediante il quale si cerca di suddividere in parti uguali il rischio non soltanto nella politica esterna ed interna, ma anche nella vita privata, assoggettandolo così alla ragione; negli sforzi con i quali si cerca di decifrare il destino mediante il calcolo delle probabilità. È visibile, inoltre, nei numerosi e complicati tentativi di tradurre la vita dell’anima in un meccanismo di causa e di effetto, trasformando la sua natura non soggettiva a calcolo di una grandezza calcolabile, e circoscrivendola quindi nel dominio della coscienza».
A novant’anni di distanza, questa visione jüngeriana continua ad illuminare, a nostro avviso, l’attualità generale del nostro mondo occidentale, con la sua ossessione per l’azzeramento del rischio, la razionalizzazione totale delle pratiche di vita collettive e individuali, con tutte le irreggimentazioni che ciò comporta, e con l’espulsione del dolore da ciò che è “naturale”; tanto più utili sono tornate queste parole durante la pandemia, periodo in cui le ossessioni appena richiamate sono emerse in modo ancora più acuto, ben al di sopra delle legittime contromosse poste in campo dalla politica e dalla medicina per difenderci dal Covid-19.
Alcuni di questi motivi, letti attraverso l’ottica dello scienziato della politica e dello studioso delle dinamiche del potere, ritornano anche in Sotto scacco di Lorenzo Castellani, docente di Storia delle istituzioni politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma, uscito due settimane fa per Liberilibri. Nel 2020 l’Autore aveva pubblicato L’ingranaggio del potere, rispetto al quale Sotto scacco rappresenta, se così possiamo esprimerci, l’aggiornamento alla luce della crisi pandemica e insieme l’approfondimento.
Nel libro del 2020 Castellani aveva mostrato come nelle società avanzate il principio aristocratico continuasse a prosperare, a dispetto di quanto comunemente si sia portati a credere o ad ammettere. Nelle democrazie contemporanee, infatti, il principio aristocratico si trasmuta in quello della competenza, cioè della conoscenza specialistica degli individui, fornita e certificata dalla struttura stessa della società attraverso istituzioni educative, programmi di studio, titoli, esami e concorsi. Il potere dei tecnici, negli ultimi decenni, ha rubato sempre più spazio al potere degli eletti (commissioni, think tank, comitati tecnici ecc., che affiancano e influenzano in modo spesso decisivo i politici eletti, rappresentano ormai la regola non l’eccezione nelle nostre democrazie). Ciò è avvenuto, in estrema sintesi, a motivo della crescente complessità delle nostre società, la quale ha richiesto una parallela crescita dell’esercito di specialisti capace di far funzionare l’enorme apparato burocratico, economico e tecnologico che avvolge le nostre vite e le mantiene “sicure”.
Uno scenario non privo di tensioni, problemi e interrogativi, anzitutto per lo statuto delle nostre libertà, messe sempre più in crisi dalla crescente razionalizzazione sociale, che promette di aumentare la sicurezza in cambio di disciplinamento collettivo. Su tutto ciò si è abbattuto il covid quale fattore di acceleratore delle dinamiche già in atto. Questo è il punto di partenza di Sotto scacco.
In un momento storico in cui la domanda di sicurezza era già alta, è arrivato il “cigno nero” della pandemia. L’emergenza ha portato con sé una compressione delle libertà – in parte giustificata in parte meno – che si è sovrapposta a problematiche che già covavano. Le istituzioni pubbliche hanno prodotto regole di sicurezza dettate per lo più da comitati, consulenti, task force. Consci di vivere nella società più avanzata che sia mai esistita, gli abitanti delle democrazie occidentali hanno difatti rimosso il rischio della morte (vedi Jünger citato in apertura). Questo ha generato quasi una reazione isterica nelle masse, a sua volta portatrice di una richiesta di sicurezza rivolta al Leviatano. «La pandemia ci ha ricordato che essere governati è anche e soprattutto essere chiusi, tracciati, sorvegliati, controllati, certificati, distanziati, isolati. La domanda di sicurezza ha stretto gli ultimi bulloni residui del Leviatano. Ha spazzato via tutte le membrane, come la famiglia, la scuola, il lavoro, le associazioni, le chiese, che separavano l’uomo dal governo» (p. 18).
Come leggere tale processo? L’elemento centrale cui guardare – suggerisce Castellani – è la paura, e invita a riguadagnare lo sguardo di Hobbes: «Nel suo pensiero c’è l’assunto di ogni utilitarismo, ma anche di qualsiasi capitalismo. Il capitalismo vende e compra il piacere generando il superfluo di massa. Ma per farlo meglio necessita dello Stato che amministra il timore della scarsità. Da ciò deriva la sempre presente tentazione alla centralizzazione dello Stato capitalistico. La successione di paura, piacere, inevitabile dispotismo è l’espressione vera e vivente del connubio amministrazione-capitalismo. La paura suprema, quella della morte portata dalla pandemia, non potrà che rafforzare questa coppia e creerà le condizioni affinché l’uomo sia meno libero e il potere maggiormente dispotico» (ibidem).
La paura, dunque, come elemento fondamentale, capace di far esplodere una grande richiesta di disciplinamento. Questa non è caduta solo, per così dire, dall’altro verso il basso, cioè dalle istituzioni sui cittadini, attraverso l’esercizio delle funzioni di polizia, ma si è propagata in modo orizzontale: i cittadini si sono fatti poliziotti per i loro vicini, in alcuni casi denunciandoli alle pubbliche autorità, pur di poter ridurre il pericolo del contagio. Tutto ciò si è nutrito anche di una vera e propria fede nella scienza ben poco scientifica. «Così ci è spesso apparsa la sfera pubblica nella tragedia della pandemia. Un carnevale itinerante di uomini saputi che hanno rinunciato al dubbio e si sono convertiti prima alla protervia e poi a uno sciatto scientismo. Un’inclinazione che ha fatto della scienza un feticcio per disciplinare i dubbiosi e i contrari, una ideologia che mira all’espropriazione del dibattito pubblico in nome del presunto potere superiore degli esperti» (p. 46). In tal modo, mette in luce Castellani, proprio il metodo scientifico è stato messo in ombra, e in non pochi casi dagli esperti stessi, fornendo propellente alla propaganda complottista e ascientifica. Il problema è che tale dinamica – suggerisce tra le righe l’autore – è già in una qualche misura la “forma” della nostra società, che la pandemia ha solo messo in luce in modo inequivocabile, una forma che vede gli “esperti” come nuovi depositari del sapere certo e indubitabile, in grado di fornirci quella sicurezza e quell’esenzione dai pericoli promessi a tutti nelle democrazie avanzate, edificate sui principi del razionalismo politico: «La sovranità della ragione comporta la sovranità della tecnica» (p.55).
La pandemia ha spinto questo processo di diffusione delle pretese tecnocratiche fino ai massimi livelli. Poiché l’affannosa corsa emergenziale, accelerata dall’epidemia, spinge le istituzioni verso una nuova pianificazione che pretende di essere iper-razionale. La politica, così, regredisce a mera regolazione di rischi, e l’insieme dei dispositivi sicurezza finisce col creare, per Castellani, una sorta di stato d’eccezione leggero: «È del tutto evidente che con le politiche d’emergenza adottate dai governi in questi mesi si sia entrati (o forse tornati) in una dimensione maggiormente hobbesiana dell’esistenza politica, in cui lo Stato è chiamato a proteggere la vita e a disporre delle libertà dei cittadini in modo ben più invasivo rispetto alla normalità a cui le democrazie liberali degli ultimi settant’anni erano abituate» (p. 70). Insomma, la possibilità che tale stato d’eccezione soft possa stabilizzarsi e diventare permanente non è da escludersi, con un aumento di dirigismo e centralizzazione del potere, in cui Stato e capitale privato s’intrecciano sempre di più, e una élite tecnocratica guida una società sempre più disciplinata con dosi massicce di pianificazione: «Dopo una stagione di persino eccessivo ottimismo globalista e di esaltazione della libertà individuale su tutti i fronti, stagione che vent’anni fa iniziava a entrare in una lunga crisi, ora ci si muove a grande velocità verso il rischio dell’eccesso opposto, ossia verso la disciplina, il controllo pervasivo, il dirigismo economico, la regolazione estrema e capillare» (p. 110).
È possibile scongiurare questo esito “cinese”? Il saggio di Castellani offre una pista per rispondere a questo interrogativo, chiamando in causa la “società” e uno scenario fondato sul trinomio fiducia-libertà-autonomia, dove si rinuncia e al nazionalismo anacronistico (a destra) e al progressismo scientista e pedagogico (a sinistra). Uno scenario fatto di pluralismo istituzionale, con una società policentrica, dove trova spazio un sano federalismo tra gruppi, in grado di limitare la pretesa di sovranità assoluta, capace di frenare l’espansione tecnocratica, l’impersonalità sistemica del comando, in una parola di decentralizzare il potere e dare respiro all’umano.
La democrazia (e la politica) sotto scacco nell’analisi di Castellani, di Carlo Marsonet, «Istituto di Politica», 6 febbraio 2022
Nel suo ultimo volume, pubblicato postumo, Perché in Occidente c’è più libertà che in Oriente? (Rubbettino, 2020), Luciano Pellicani aveva portato a conclusione la ricerca condotta per tutta una vita, incentrata sul tema della società aperta e delle proprietà istituzionali che, alla radice, la caratterizzavano. Perché in Occidente, e solo lì, si era prodotta la civiltà più libera e prospera? In cosa esso si differenziava, in definitiva, dall’Oriente? Certamente, la prospettiva del compianto Pellicani risentiva di una certa visione illuministica francese, la quale, con tutta evidenza, fa propria una visione un po’ troppo ottimistica della ragione umana rispetto al parente scozzese. Nondimeno, egli non ha mai sottovalutato l’importanza del riconoscimento dell’ignoranza e della fallibilità umane: non a caso, si deve anche a lui la discussione in Italia, magari anche più che scettica talvolta, di grandi scuole di pensiero, come la scuola Austriaca, e autori come Mises, Hayek e Popper, ad esempio.
Da ciò deriva, tutto sommato, la concezione dell’uomo come un viaggio nell’insondabile e mai definitivamente e del tutto comprensibile oceano che è la vita. In tale percorso, allora, l’uomo si trova di fronte a differenti e molteplici ostacoli, per non dire veri e propri problemi: carestie, pestilenze, malattie. La vita, come diceva Popper, è un continuo e mai concluso percorso volto alla risoluzione di sempre nuovi ed emergenti problemi. Ma l’Occidente, con le sue istituzioni aperte, il suo individualismo, la sua libertà fragile, il suo concepire la società ad alta divisione del lavoro come un impasto di competizione e cooperazione tra differenti individui ha reso possibile un pluralismo (sociale, politico, economico) tale per cui si è creato benessere materiale, ricchezza intellettuale e sviluppo tecnologico. Ma che ne è di tutto questo, se vengono meno quelle proprietà istituzionali che hanno contraddistinto quel grande esperimento vitale che siamo soliti chiamare Occidente?
Tra un più o meno velato pessimismo e un ben percepibile realismo, Lorenzo Castellani (in basso, nella foto), studioso di storia delle istituzioni politiche presso la Luiss – Guido Carli e degno erede dell’ormai defunto Centro di Metodologia delle Scienze Sociali presso il medesimo Ateneo (eccellenza a cui grandi nomi come Dario Antiseri, Lorenzo Infantino e Pellicani medesimo contribuirono), continua questo percorso di ricerca chiedendosi se la pandemia, alla fine, non abbia posto «sotto scacco» l’Occidente. Il titolo del suo ultimo lavoro, per l’appunto Sotto scacco, appena uscito per la casa editrice maceratese Liberilibri, intende descrivere quanto ormai la crisi pandemica abbia fatto emergere tutta una serie di questioni critiche in seno alle società occidentali e quanto ormai esse si siano avvicinate all’Oriente. Studioso del potere e della democrazia rapportata alla tecnocrazia, ha precedentemente dedicato al tema una storia evocativa dello sviluppo di quest’ultima (L’ingranaggio del potere, Liberilibri, 2020). Sotto scacco può essere letto come l’approdo ultimo di questo sviluppo storico ulteriormente esacerbato dalla pandemia. Infatti, scrive Castellani, la pandemia ha solo reso più visibili ed estremizzato, dunque, tendenze che già da decenni si stavano manifestando.
L’erosione della politica rappresentativa a vantaggio di una forma politica che egli definisce tecno-democrazia, una democrazia sotto tutela, ovvero sotto la custodia dei tecnici, è ora una delle questioni più dirimenti del nostro tempo. Durante questi due anni, infatti, non solo è stato calpestato qualsiasi libertà o diritto rettamente inteso, magari in nome della sicurezza collettiva e comunque con il benestare dei giuristi e dei “custodi” dell’ordine liberaldemocratico (magari ex comunisti). Sotto questo aspetto, Castellani ha ragione da vendere nel citare Carl Schmitt il quale sosteneva che «Chi dice diritto vuole ingannare, chi dice potere vuole smascherare»: lo stato di diritto è una pia illusione. In nome dell’emergenza sono stati espansi a dismisura i poteri pubblici e, come ha posto in luce Robert Higgs nei suoi studi, ben difficilmente si tornerà al livello pre-crisi di una tale intromissione del potere pubblico nelle vite delle persone. Si è fatta inoltre passare l’idea che la scienza sia un qualche cosa di magico e risolutivo: un potere che può assicurare ordine e felicità una volta per tutte. Se, come ricorda Castellani, il filosofo della paura, Thomas Hobbes, è ancora uno dei pensatori più illuminanti, per l’analisi del dispositivo statale, è in modo particolare a Michael Oakeshott che bisogna rivolgere lo sguardo per l’analisi delle tendenze razionalistiche del nostro tempo. Sempre più timoroso e pavido, poiché ebbro di agi e comodità, il “signorino soddisfatto” moderno è in balia di se stesso e delle sue paure. Egli è incapace di concepirsi come un essere ignorante e fallibile. Da ciò, la conseguente stolidità di ricercare una sorta di vita perfetta che espunge fatica, problemi e il senso tragico della vita. La Scienza, dunque, consente all’uomo di coltivare quell’insipiente ottimismo nel potere sovrumano della Ragione, facendo dimenticare i limiti che dovrebbero, invece, accompagnare l’individuo a comprendere la sua umile e precaria posizione nel mondo.
Tralasciando la dimensione religiosa dell’esistenza umana – necessaria, per uno come Tocqueville, a limitare lo sviluppo del servilismo umano – giacché non tutti possono condividere la necessità della fede in qualcosa che va al di là di questo mondo umano, è chiaro come la consapevolezza dei limiti del pensiero e dell’azione umana sia il prerequisito per risollevarsi dopo due anni di crisi pandemica. L’uomo, scrisse Hayek, non è e non sarà mai padrone del proprio destino. Occorre rigettare quella «politica del libro», per dirla con Oakeshott, ovvero tentare di imbrigliare la possibilità di imprevisto e rischio insiti nella condizione umana. Una tale politica fideistica, quel potere «immenso e tutelare», per citare nuovamente forse il principale punto di riferimento di Castellani, Alexis de Tocqueville, che ridurrebbe la vita a calcolo onnicomprensivo è una prospettiva che un individuo libero e responsabile non può accettare: vivere significa convivere con la sua gracile e imprevedibile costituzione. La Cina è un po’ più vicina. A noi, tuttavia, rimangono da meditare le parole di Fëdor Dostoevskij, opportunamente citate dall’Autore: «Vedete: la ragione, signori, è una bella cosa, è indiscutibile, ma la ragione non è che la ragione e non soddisfa che la facoltà raziocinante dell’uomo, mentre il volere è una manifestazione di tutta la vita, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e con tutti i capricci. E sebbene la nostra vita, in questa manifestazione, riesca sovente una porcheria, è comunque la vita, e non è soltanto un’estrazione di radice quadrata». Precaria libertà o presunta granitica sicurezza, accettazione dei limiti o ricerca della perfezione, razionalismo scettico come metodo o razionalismo dogmatico come scienza, pluralismo decentrato o dispotismo centralista: cosa sceglierà l’Occidente?
Politica e democrazia Sotto Scacco: Lorenzo Castellani ci racconta i rischi tecnocratici, intervista di Tommaso Alessandro De Filippo, «Il Primato Nazionale», 5 febbraio 2022
Lorenzo Castellani, giornalista, volto televisivo e docente di Storia delle istituzioni politiche, è uno dei principali osservatori ed analisti italiani delle sembianze e strutture assunte dal potere tecnocratico nel corso della storia, con i rischi per democrazia e rappresentatività popolare che ciò comporta. Per la casa editrice Liberilibri ha pubblicato nel 2020 L’ingranaggio del potere e recentemente Sotto Scacco, un sequel del primo testo che analizza il regime tecnocratico al tempo della pandemia da coronavirus.
Lorenzo Castellani in Sotto Scacco analizza il regime tecnocratico al tempo della pandemia
Strutture burocratiche e centraliste hanno assunto il predominio del dibattito politico e sociale, nel nome di una presunta stabilità da garantire che è di fatto il miglior alibi per narcotizzare il clima di dibattito popolare, roccaforte di ogni ambiente democratico. La predominanza mondiale nell’ambito tecnico rischia di finire totalmente nelle mani del regime comunista cinese, pronto ad espandere le proprie metodologie governative in un panorama geopolitico privo di un contropotere che possa fungere da alternativa credibile. Un rischio evidente fino ad oggi trascurato, che affonda le proprie radici già nei secoli scorsi e che potrebbe nel prossimo futuro porre in discussione le dinamiche sociali e democratiche che abbiamo ritenuto fino ad oggi assodate.
In che modo si forma il potere tecnocratico e come guadagna spazio all’interno dell’ambito sociale?
“La combinazione tra crescita della burocrazia, quindi delle funzioni statali; progresso scientifico, dunque importanza crescente delle competenza specialistica; e industrializzazioni, cioè tecnica applicata, fondano e hanno fondato le premesse per una tecnicizzazione della politica. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo non è apparsa soltanto la democrazia, ma anche la tecnocrazia. Sono molte le istituzioni pubbliche che si fondano sulla competenza più che sulla rappresentanza e che esercitano funzioni specifiche e non generali, pur restando nell’ambito politico”.
È possibile identificare un crocevia storico che permetterà al tecnicismo di mostrarsi come la panacea di tutti i mali nell’ambito politico europeo?
“Difficile a dirsi, ma la tecnica presuppone un uomo ad una sola dimensione, quella tecnica appunto. Può l’elemento tecnico abbracciare l’intero concetto di umanità? Mi sembra difficile. Lo stesso vale per la politica, che è la capacità di gestire la vita associata. Può forse essere ridotta a formula tecnico-scientifica? Pluralismo e conflitto fanno parte della natura umana, chi crede di poterli rimuovere pecca di utopismo e crea grandi pericoli”.
Quali sono i principali rischi per le democrazie d’occidente derivanti dall’avanzata di questo potere?
“Come diceva Tocqueville già quasi due secoli fa il rischio è che la democrazia si trasformi più che in un regime totalitario o dittatoriale in una sorta di dispotismo dolce, fondato sulla tecnocrazia. Non dunque la feroce dittatura novecentesca, ma un regime che unisca una società stordita dall’intrattenimento e dalla tecnologia ad una politica burocratizzata”.
Quanto è forte il legame tra strutture tecnocratiche e settore finanziario?
“La finanza ama la stabilità politica perché vuole ridurre al minimo i rischi. Già il settore finanziario deve fronteggiare continui cambiamenti economici e se ad essi si sommano anche quelli politici la gestione delle rendite diventa più rischiosa e complessa. Per questo spesso la finanza influenza e si ramifica nelle istituzioni pubbliche. I tecnocrati sono persone che per la loro formazione parlano la stessa lingua delle banche d’affari e che garantiscono continuità nelle politiche pubbliche. Sono dei semplificatori in società complesse. Meno conflitto politico esiste, più la società è domata, meglio è per i mercati finanziari. I tecnocrati addomesticano il conflitto politico e creano stabilità, per questo la finanza spinge sempre più per una tecnicizzazione della politica”.
Il tuo ultimo testo Sotto Scacco è concentrato sul momento pandemico. In che modo l’avvento del coronavirus ha innescato ed amplificato la crisi del sistema politico?
“C’erano già prima della pandemia alcune trasformazioni abbastanza evidenti: lo sviluppo tecnologico delle piattaforme, la crescente influenza di tecnici ed esperti, il depotenziamento della politica, il ritorno dello Stato nell’economia, l’esasperazione della sfera pubblica preda di minoranze rumorose e fanatiche, l’infatuazione per le politiche ambientali senza fare i calcoli con il loro impatto economico e sociale. La pandemia ha accelerato rapidamente questi cambiamenti, determinando in alcuni casi delle degenerazioni, e aprendo una lunga fase di emergenza con cui si cerca di tenere a bada rischi incontrollabili. Alla fine la domanda da rivolgere a noi stessi è: in questa presunta nuova normalità siamo più o meno uniti? Più o meno soli? Più o meno liberi? Più o meno fiduciosi?”
Sarà possibile offrire alternative volte a ridurre i rischi derivanti dal regime tecnocratico già nel prossimo futuro?
“Sarà possibile offrire una alternativa soltanto se la società ritroverà se stessa ed uscirà dalla dipendenza dal potere pubblico e dall’amministrazione della paura. C’è bisogno di una società auto-organizzata che protegga gli individui dai rischi del paternalismo e del centralismo tecnocratico. Senza una comunità si muore in solitudine, e per quanto tecnologica e ricca questa solitudine sia devasta la fiducia reciproca. L’individuo senza forti legami spontanei, solo e conformista, è destinato all’infelicità. È disunito. Solitudine, sospetto e infelicità diffusa generano le reazioni peggiori in politica, come le guerre civili e le dittature. In definitiva, serve una scelta morale a favore della responsabilità individuale e collettiva, che generi fiducia diffusa, senza sottomettersi volontariamente ad un potere-balia che ci sorveglia e indirizza. Quei rischi di degenerazione nel dispotismo sono evitabili soltanto se tra libertà e sicurezza si sceglierà la prima. E se le élite saranno capaci di riconoscere che il pluralismo di idee ed il conflitto bene ordinato sono più una ricchezza che un problema”.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
“Ci sarà un podcast a breve, ma il contenuto è ancora top secret. E poi un altro libro, ho giusto stilato l’indice”.
‘Sotto scacco’: la pandemia porta con sé una tragica lezione, di Andrea Venanzoni, «Il Foglio», 2 febbraio 2022
Descrivendo il gioco degli scacchi, Giorgio Manganelli ha scritto “è silenzioso, maniacale, malsano, genera nevrotici protagonisti di un freddo sogno di simboli e tornei, di numeri e di re”. Il nuovo libro di Lorenzo Castellani, docente di Storia delle istituzioni politiche alla LUISS Guido Carli di Roma, non solo si apre con uno dei momenti più critici della vita oleografica dello scacchista ma a quel momento, lunghissimo e teso, ininterrotto e nutrito di ghiaccio, silenzio e conturbante attesa, è dedicato il titolo stesso dell’opera: “Sotto scacco“, uscito da pochissimi giorni per la Liberilibri.
Al pari del giocatore posto dall’avversario sotto scacco, a un passo dalla fine e non potendosi egli più permettere la intrinseca fallibilità dell’animo umano, l’individuo del tempo pandemico è stato stritolato da una montante onda di eccezionalismo, di potere pubblico esondato dai limiti ordinamentali che si è dato nel corso del tempo, sotto forma di Costituzione e di contrappesi istituzionali, e da una digitalizzazione autoreferenziale e tragicamente autopoietica: l’uomo, e la società, sono finiti sotto scacco di un virus invisibile, impalpabile, a trasmissione aerea, la cui inarrestabile diffusione e contagiosità hanno alterato il senso stesso del percorso della storia, andando a seminare un prima e un dopo la pandemia.
Ma si è finiti sotto scacco anche dei provvedimenti adottati da un potere pubblico che nel tentativo di impedire l’avanzare della malattia, e l’aumento delle ospedalizzazioni e dei decessi, ha alterato geneticamente la posizione stessa del soggetto che un tempo centro di imputazione di diritti, libertà e interessi è divenuto ingranaggio, e suddito, di un meccanismo di precauzione sanitaria.
In questo tempo dolente, se c’è qualcosa di più lezioso di virologi ormai assurti alla celebrità mondana e mediatica, capaci con encomiabile trasformismo culturale di traslarsi dalle loro materie di elezione anche al costituzionalismo e alla sociologia, alla scienza della politica e alla economia, questo qualcosa è proprio il torrenziale diluvio di carta sotto sembianze di best seller pandemici: librini, libercoli, instant book, tutti a base di speranze per il futuro più o meno radioso, sul mondo che verrà una volta eclissata la nebbia pestilenziale, e focalizzati sulla sanità, sulla bellezza dello stato, su come ne usciremo e se mai ne usciremo.
Quello però di Castellani non è un libro della pandemia o un libro tragicamente conchiuso sulla pandemia, uno di quei tometti la cui tesi portante viene snocciolata tra uno stacco pubblicitario e un sorso di acqua in uno studio pomposamente illuminato a festa: al contrario, Sotto scacco è una seria, ponderata e analitica riflessione sul senso del potere in tempi di crisi e di emergenza.
Come avvertiva Carl Schmitt, nel gorgo vorticante delle fratture ordinamentali, quelle che adombrano la morfologia di un mutamento dell’assetto istituzionale, molto spesso si suole dimenticare come caos ed entropia divengano fattori onnipotenti: troppo presi dalla fisionomia carnicina del potere e delle sue garanzie e dei contrappesi delineati tra aule di tribunale e dialettica parlamentare, siamo soliti dimenticare il peso insostenibile della ferita. La ferita da cui il sangue continua a sgorgare, puro e inarrestabile, e che porta a dissanguare il senso stesso della libertà, in quella frenetica accelerazione che secondo Georges Bataille contraddistingue la sostanza della sovranità.
Castellani rileva come ormai la nostra vita dipenda molto più dalle decisioni assunte da un funzionario pubblico che non dai politici rinchiusi, spaventati, in un cantuccio: è d’altronde in certa misura il prezzo, inevitabile, per essersi troppo a lungo crogiolati nel ventre pasciuto di uno stato sociale cresciuto bulimicamente a dismisura, oltre ogni possibilità di mantenimento di un qualche canone di razionalità e di contenimento. Ed è frutto anche di una politica piccina, di un Parlamento volenteroso carnefice contro sé stesso che ha decentralizzato il peso della decisione e si è lasciato spogliare dal governo prima e dalla persona del presidente del Consiglio poi di ogni funzione e prerogativa.
In questo tumulto, nella disintegrazione degli orizzonti conosciuti, avanza ancora di più la fisionomia ombrosa della burocrazia, con le sue regole, i suoi codici comunicativi e ontologicamente autopoietici: non casualmente, Castellani ricorre, tra gli strumenti epistemologici, all’utilizzo anche della teoria dei sistemi cara a Niklas Luhmann che della burocrazia e della autopoiesi è stato indefesso cantore. Ogni giorno che passa, nella pestilenziale epoca che ha tutto votato al dogma della efficienza e della competenza, ci dobbiamo inchinare a una burocrazia inarrestabile, puntuta, pericolosa, che si è espansa in ogni ambito e in ogni nicchia della vita sociale, e che in fondo è trionfo di quella mentalità da ragioniere pubblico che già Nicolás Gómez Dávila stigmatizzava quando scriveva che “le pose rivoluzionarie della gioventù moderna sono prova inequivocabile di attitudine alla carriera amministrativa. Le rivoluzioni sono perfette incubatrici di burocrati”.
Perché in effetti se qualcuno sperava che dalla gioventù potesse provenirci un qualche impeto al cambiamento e alla frantumazione della cappa di controllo sociale imposta dalle regole anti-pandemiche potrebbe pure concentrarsi sulla singolare polemica insorta tra il ministro della Pubblica Istruzione, Patrizio Bianchi, e una parte degli studenti i quali non volendo sostenere l’esame di maturità in presenza se ne sono uggiolati piagnucolosi “ci si ricordi del Covid!”. Roba da dar piena ragione al Giovanni Papini che annunciava quale unico momento di verità della scuola pubblica la parete delle latrine su cui si va a liberare la vescica.
Fingono di aver paura e a cuore la sanità pubblica, giovanotti, politicanti, burocrati e intellettuali che non hanno lavorato un sol giorno nella loro vita; e la paura, quella vera e quella artificiale inoculata dal potere pubblico nel corpo sociale, è il cuore delle riflessioni di Castellani incentrate e dedicate alla paura e al corpo del sovrano. Antico e ombroso è il nesso che intercorre tra la paura e la fondazione dello stato, e rimanda a quell’epoca metastorica, immaginifica ma conveniente, dello stato di natura hobbesiano che può solo essere domato brutalmente dallo spossessamento della propria autodeterminazione, pattiziamente ceduta al Leviatano il quale si curerà, con ogni mezzo, whatever it takes declinato in salsa pandemica, di far star buoni tutti, docili e riottosi. L’esigenza servente di governare la paura si fonde alla speculare necessità di governare con la paura: il Moloch statale si nutre della paura e al tempo stesso esorcizza le abissali paure dei cittadini che consociandosi rinunciano alle loro individualità per sfuggire alla asserita brutalità della guerra selvaggia del tutti contro tutti.
Il rito è procedura, insegnava Mircea Eliade, e ogni procedura è violenza anti-naturale, che struttura la realtà dei fatti e la sminuzza per adattarla a una contro-realtà istituzionale. La sovranità che fonda lo stato si nutre del senso profondo della paura e del misticismo: da Jean Bodin a Ersnt Kantorowicz, passando per Alexandre Kojève e Carl Schmitt, c’è quella linea concettuale che si è soffermata sulla fondazione del potere regale come secolarizzazione della regola mistica e dell’abisso della metafisica, uno scettro per domare gli spettri del vuoto e dell’anarchia, come se questa ultima fosse per forza di cose un male.
Il paradosso del tempo pandemico è proprio quello di snudare su un palcoscenico istituzionale la consistenza di questo binomio sovrano: si lotta e combatte contro la paura pestilenziale, l’angoscia della terapia intensiva, la colonna di camion coi morti sopra, le bare sigillate, la mestizia di chi resta a vagare nel silenzio di notti tutte uguali, ma per farlo, per farlo con maggiore efficienza ed efficacia, si costruisce un teatro degli orrori, celebrando un osceno carnevale di sofferenza e di terrorismo psicologico. Colate laviche di pornografia medica gettate onda su onda contro gli spettatori televisivi. Ed è certo vero, come rileva Castellani, che il potere opera da antidoto alla paura perché riduce, sistematizza, sgretola la complessità, e la complicazione che questa sempre importa: e così facendo, inevitabilmente, si stringono le maglie dei controlli e si asfissia la libertà. In questo cortocircuito si disegna la fine della libertà e del mondo che abbiamo conosciuto. Spinte centripete spesso sospinte dallo smodato uso del digitale, capillarmente invasivo di ogni nostro centimetro di anima e di pelle: è il grande padre digitale, cui Castellani dedica un capitoletto.
In un altro recente libro, Calise e Musella hanno parlato di ‘Principe digitale’ per descrivere quei processi politici slabbrati dal linguaggio del digitale, in una epoca di iper-personalizzazione e di partiti frantumati trasformati in network in apparenza eterarchici ma votati a logiche direttoriali: ecco, prendete questa lezione e aggiungeteci la porosità vischiosa della logica pandemica, in cui il digitale ha contribuito non solo a far comunicare e a controllare ma ad entrarci letteralmente dentro, ben oltre la lezione della Zuboff e del suo capitalismo della sorveglianza che a ben vedere poi è assai poco capitalismo e molto, ma davvero molto, statalismo.
L’espansione dei poteri di polizia, la bulimia sovrana del pubblico a discapito di qualunque manifestazione di individualità, la crisi elevata a sistema e a ordine del giorno da cui far partire qualunque discussione, l’oscillazione del pendolo tra il collasso decostruito da Jared Diamond e la catastrofe su cui di recente ha scritto Niall Ferguson, sono fattori che tra loro cospiranti producono uno scenario oggettivamente inquietante. Secondo Castellani, non uno scenario del tutto nuovo: la crisi non contribuisce, in questa prospettiva, a strutturare fenomeni del tutto nuovi, ma può infondere elementi e un corso questi sì nuovi alla storia e al ciclo vitale della società nel suo complesso. Di questa visione conclusiva però, devo dire, non sono del tutto persuaso, e per un motivo lineare: ogni crisi prelude non semplicemente a un riassetto ordinamentale ma alla edificazione di un mondo nuovo.
La crisi di inizi novecento su cui si è soffermato Santi Romano nella celebre prolusione pisana, la crisi della civiltà su cui si sono esercitate sensibilità diverse come quelle di Jung, Freud, Ortega y Gassett, Mann, Musil, Junger, Heidegger, Schmitt: la crisi, quando è vera crisi, produce un novum e questa novità può essere il sentiero lungo cui incamminarsi verso il collasso o verso la catastrofe, come pure fu negli anni immediatamente seguenti la massiccia riflessione sul senso della tecnica e della mobilitazione totale, oppure può preludere a un riassetto assiologicamente più libero e innovativo, governato da logiche inclusive. Che una crisi acceleri fenomeni latenti e li faccia esplodere alla fredda luce del giorno, è indubbio. Ma è altrettanto indubbio che la crisi sia proprio quella luce. Essa snuda, orienta, conforma, plasma ma soprattutto fonda, origina e crea, e solo una società matura, salda nei propri principi, può utilizzare quei bagliori senza farsene condizionare o annullare, come nel pietrificante sguardo della Medusa. E se non ripartiamo dal fondamentale assoluto, ovvero la libertà, brancoleremo nella tenebra del dispotismo, sani sì ma schiavi.